Secondo i fondamentalisti del mercato, i sindacati con le loro rivendicazioni riducono l’efficienza dell’economia e comprimono la crescita che può abbassare le disuguaglianze. Non c’è dunque da preoccuparsi della tendenza all’indebolimento di queste organizzazioni nelle democrazie avanzate, sempre più evidente dagli anni Ottanta del secolo passato, con il ridimensionamento occupazionale dell’industria. Tra il 1980 e la fine dello scorso decennio la sindacalizzazione dei lavoratori dipendenti è scesa in Europa dal 40 al 25 per cento.

Chi si preoccupa del ritorno a forti disuguaglianze nei paesi più sviluppati dopo il trentennio post-bellico sottolinea, invece, come questa tendenza sia più marcata proprio dove il ridimensionamento dei sindacati è stato maggiore, e più ampio il ruolo lasciato al mercato nella regolazione dei rapporti di lavoro, come nei paesi anglo-sassoni. Al contrario, le disuguaglianze sono state più frenate dove i sindacati e le relazioni industriali si sono meno indeboliti, e questo legittima maggiormente il loro ruolo e il loro futuro. 

Dunque, dove la sindacalizzazione rimane più alta e la contrattazione collettiva copre la stragrande maggioranza dei lavoratori. Sono soprattutto i paesi dell’Europa centro-settentrionale a mostrare queste condizioni. In tali contesti (si pensi ai paesi scandinavi, ma in parte anche alla Germania), i sindacati hanno mantenuto, pur con differenze, un orientamento alla rappresentanza più generale del lavoro piuttosto che di specifici interessi categoriali.

Riadattarsi

Attraverso un percorso non facile, si sono riorganizzati dopo il declino dell’industria fordista tradizionale, aprendosi maggiormente alla rappresentanza delle donne e dei giovani, e di quanti sono coinvolti nelle forme di lavoro più instabili in crescita. Lo hanno fatto sperimentando forme di reclutamento e di partecipazione innovative (quote, incentivi selettivi, ecc.), ma specialmente innovando nelle politiche proposte e concertate con i governi e le organizzazioni imprenditoriali.

Due le direzioni principali. Una contrattazione dei salari e delle condizioni di lavoro più legata all’impegno diretto per la crescita della produttività delle aziende. Una riforma del welfare centrata sul ridimensionamento delle vecchie politiche passive (pensioni, sussidi di disoccupazione) e maggiore rilievo dato a quelle attive (conciliazione, formazione, nuove tutele a carico della fiscalità generale per pensioni e disoccupazione). 

Lo sciopero “politico”

Queste differenze nel riadattamento dei sindacati suggeriscono che non è tanto la sindacalizzazione o la copertura della contrattazione collettiva, né l’orientamento a una rappresentanza generale del mondo del lavoro a fare la differenza in termini di capacità dei sindacati di contrastare le disuguaglianze e di mantenere un ruolo rilevante. È cruciale il modo in cui è declinato l’orientamento a una rappresentanza più generale.

Quando per esempio i leader di Cgil e Uil rivendicano orgogliosamente il carattere “politico” dello sciopero della scorsa settimana, essi fanno riferimento a questa tradizione importante del sindacalismo italiano. È sbagliato criticare dunque lo sciopero recente contestandone il carattere politico. Anzi, questo orientamento a rappresentare il mondo del lavoro nel suo complesso costituisce una risorsa importante in una società in cui i rapporti di rappresentanza si vanno sbriciolando. Si tratta piuttosto di mettere in luce come essa non sia spesa più efficacemente.

Innovazione

I motivi sono fondamentalmente dovuti alla carenza di innovazione sul piano organizzativo (anche se qualche cosa è stato fatto, specie per incoraggiare la partecipazione delle donne) e ancor di più delle politiche. Si vuole giustamente dare rappresentanza e voce a un’area di occupazione sempre più in crescita, fatta di rapporti discontinui e instabili, ma non si vuole innovare sul welfare e concertare col governo, rinunciando alla difesa con mezzi tradizionali dei gruppi più stabili e protetti (si pensi al recente contrasto sulle pensioni o al divieto di licenziamento).

Gli insider delle imprese medio grandi e dell’impiego pubblico rappresentano, insieme ai pensionati, il fulcro della rappresentanza sindacale. Un nucleo che si sta però rapidamente erodendo: nello scorso decennio i lavoratori in uscita tra 55 e 64 anni avevano un tasso di sindacalizzazione del 38 per cento, quelli in entrata, tra 18 e 24 anni, dell’8 per cento.

Negli anni Ottanta il tasso di sindacalizzazione nell’industria toccava il 55 per cento, negli ultimi anni è sceso al 35. Di fronte a questa contraddizione tra aspirazione a dar voce a chi non ce l’ha e resistenza interna all’innovazione si ricorre all’arma dello sciopero politico, ma anche questa, come ha confermato lo sciopero della scorsa settimana, appare un’arma tradizionale: un rito per gli insider, poco efficace per interessare gli outsider e incidere sul futuro dei sindacati.

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