Mercoledì la Federal Reserve ha aumentato i tassi dello 0,5 per cento, seguita giovedì da Bce, Bank of England e Banca Centrale Svizzera. Identica la spiegazione: l’inflazione ha toccato il picco e comincia a scendere, ma è ancora troppo alta rispetto all’obiettivo del 2 per cento; ci saranno altri aumenti in futuro, oltre a una riduzione dei titoli accumulati con i vari quantitative easing, fino a quando non ci sarà la certezza che la crescita dei prezzi sia tornata stabilmente al 2 per cento: un obiettivo che la Fed prevede di raggiungere solo nel 2025 (2,1 per cento) e la Bce di avvicinare (2,4 la previsione per il 2025).

Tutto questo, senza recessione: 0,5 per cento la crescita prevista per gli Stati Uniti dalla Fed nel 2023; lo stesso 0,5 stimato dalla Bce per l’Eurozona, nonostante un possibile rallentamento nell’ultimo trimestre del 2022 e nel primo del 2023.

Gli annunci hanno provocato l’immediata caduta dei mercati. Evidentemente si ritiene che la politica monetaria porterà a una recessione generalizzata, nonostante la diversa natura dell’inflazione: da eccesso di domanda negli Usa; da costi di alimentari, materie prime ed energia in Europa.

Qualcosa non torna

L’analisi delle banche centrali non convince. Negli Usa i prezzi al consumo, sia l’indice generale sia quello che esclude il costo dell’energia e degli alimentari, da due mesi crescono mensilmente dello 0,1 - 0,2 per cento, in linea con l’obiettivo annuale della Fed. Non c’è garanzia che la dinamica dei prezzi continui così, ma molte le indicazioni in questo senso.

Nonostante le feste, le vendite al dettaglio a novembre sono in calo e le scorte di prodotti invenduti crescono. Anche le imprese tagliano gli investimenti in informatica e tecnologia.

Giganti come Microsoft, Facebook o Amazon hanno cominciato a licenziare; seguiti a ruota da grandi banche quali Citi, Goldman Sachs o Morgan Stanley, che hanno anche tagliato i bonus per abbattere il costo del lavoro.

Sorprende che soffra anche il cloud, che immaginavamo immune dal rallentamento, vista la tendenza a farvi migrare i dati, come dimostra la caduta della crescita attesa del leader mondiale nel campo Salesforce. Dopo anni di boom, il prezzo degli immobili sono in caduta, anche per via dei tassi proibitivi sui mutui, con ricadute negative sulle costruzioni.

La casa è poi la componente principale dell’indice dei prezzi al consumo negli Usa, che è destinato a scendere nel tempo in linea con il prezzo degli immobili, anche se con ritardo visto che gli affitti scadono e vengono rinegoziati solo nel tempo.

Tutto questo è stato evidenziato nei tanti commenti e analisi sulla decisione della Fed. Inoltre non ci sono indicazioni che le aspettative a lungo termine di inflazione siano fuori controllo, anzi è vero il contrario: la mediana delle aspettative per i prossimi 5 anni nel sondaggio dell’Università del Michigan è 2,9 per cento mentre quello implicito nei titoli di stato indicizzati a 10 anni è di 2,1.

Da dove viene allora la continua determinazione della Fed ad aumentare i tassi anche nel 2023, oltre il livello massimo che la Fed stessa si attendeva fino a pochi mesi fa?

I prezzi dei servizi

La ragione risiederebbe nella dinamica eccessiva dei prezzi dei servizi (escluso la casa), che dipendono in gran parte dalla crescita dei salari, ben superiore al 2 per cento.

È vero che nel post Covid c’è stato un forte spostamento di domanda verso questi servizi (più tempo libero, viaggi, shopping e ristoranti) e una contemporanea riduzione (inattesa e ancora poco compresa) della partecipazione al mercato del lavoro, che spinge all’insù i salari: ma le domande di ricerca di lavoro si stanno riducendo; quello dei servizi è un comparto a bassa sindacalizzazione; e, comunque, i salari crescono meno dell’inflazione, perdendo potere di acquisto.

L’atteggiamento macho della Fed, secondo alcuni commenti, sarebbe giustificato dal desiderio del governatore e del Board di non passare alla storia come Arthur Burns che, alla guida della Fed tra il 1970 e il 1978, non avendo il coraggio di mantenere alti i tassi, creò l’iperinflazione.

Meglio essere ricordati come Paul Volcker, che gli subentrò nel 1979 e sconfisse l’inflazione, seppure a costo di due recessioni. Una spiegazione più plausibile, secondo me, è che la Fed abbia voluto sgonfiare la crescita della Borsa, salita del 12 per cento da metà ottobre alimentata proprio dalle aspettative di una rapida riduzione dei tassi.

I mercati finanziari hanno infatti un grosso impatto sulla domanda negli Usa per via dell’effetto ricchezza e contrastare l’azione della Fed.

Se così fosse, dovremmo aspettarci che, ai primi segni di rallentamento, il linguaggio delle Fed cambi e i tassi scendano, per evitare il costo politico e sociale di una vera recessione. Ma a questo punto è ragionevole attendersi che l’inflazione si stabilizzi intorno al 3 per cento.

Oltre il 2 per cento

D’altra parte, non ci sono prove che l’obiettivo del 2 per cento, scelto come per la prima volta nella Nuova Zelanda negli anni Novanta, sia ottimale da un punto di vista economico.

Nell’ultimo ventennio la crescita dei prezzi è effettivamente oscillata intorno al 2, ma principalmente per l’impatto deflattivo della delocalizzazione delle produzioni in Cina, che ha compensato la maggiore crescita dei prezzi dei servizi.

In futuro, l’effetto Cina terminerà e l’onshoring produrrà un aumento duraturo e strutturale dei prezzi, come pure il costo dell’energia, che rimarrà elevato per molti anni ancora a causa del taglio degli investimenti nelle fossili e della volontà dei paesi esportatori di sostenere il prezzo di greggio e gas per finanziare la transizione delle proprie economie.

Se l’inflazione sarà strutturalmente superiore al 2 per cento, come penso, ogni tentativo di riportarla a quel livello creerà solo recessione. Non sorprende dunque che molti autorevoli economisti propugnano un aumento esplicito dell’obiettivo di inflazione al 3-4 per cento.

Cosa vuole Lagarde?

Ancora più sorprendente l’atteggiamento macho della Bce che, oltre al recente rialzo di 0,5%, ha annunciato ulteriori aumenti e una riduzione del portafoglio titoli per 15 miliardi al mese a partire da marzo quando, anche per la stessa Bce, l’Europa potrebbe essere già in recessione.

La natura dell’inflazione europea è diversa: l’aumento dei tassi non serve a frenare la cavalcata di energia e materiali, destinata a durare per le ragioni dette sopra.

Non ci sono segni di esplosioni salariali, anzi: anche i contratti appena rinnovati in Germania vedono ridurre il potere di acquisto dei lavoratori.

L’aumento dei tassi sui mutui frenerà il settore immobiliare/costruzioni, che vale una buona fetta del Pil, e il rischio di recessione frenerà l’offerta di credito delle banche alle imprese. Quanto al sacro Graal del 2 per cento, le ragioni viste prima per gli Usa valgono ancor più in Europa.

L’unica spiegazione possibile è che Lagarde e Bce si vogliano rifare una credibilità, non avendo previsto l’inflazione che loro stessi hanno creato, per non passare alla storia come il primo board nell’era della moneta unica che non ha saputo raggiungere i propri obiettivi.

Ricordiamo, però, che l’inflazione è rimasta sistematicamente sotto al 2 per cento per un decennio: evidentemente, in termini di reputazione, sbagliare per eccesso costa più che sbagliare per difetto.

Ma le conseguenze economiche della eccessiva deflazione che abbiamo vissuto non è detto che siano inferiori a quelle di un’inflazione che si stabilizzasse al 3 per cento.

Per questo credo che, come negli Stati Uniti, l’atteggiamento macho della Bce si dissolverà al primo cenno di vera recessione.

Un’inflazione obiettivo di poco superiore al 2 per cento sarebbe non solo più realistico, ma anche meno dannoso, alla lunga, per le economie di Usa ed Europa.

© Riproduzione riservata