La recente offerta del fondo Kkr per la rete di Tim aveva l’evidente scopo di difendere il proprio investimento nel 37,5 per cento di FiberCop (la rete secondaria, che è parte dell’offerta) ma anche quello di spingere Cassa depositi e prestiti (Cdp) a rompere gli indugi e fare la sua offerta propedeutica alla rete unica a controllo pubblico, di cui ormai si parla da troppo tempo. Come prevedibile, Cdp ha presentato un’offerta insieme al fondo Macquarie, socio in OpenFiber, eterna promessa sposa alla rete di Tim. E ora il consiglio di amministrazione  di Tim ha dato il via ufficiale a un processo competitivo tra i due offerenti perché le migliorino. Ma delle due offerte ufficialmente non si conoscono i termini: nei comunicati dell’emittente non si trova un singolo numero.

Abbondano invece le indiscrezioni. Secondo i principali quotidiani italiani l’offerta di Cdp è migliorativa rispetto a Kkr, pur valutandola la stessa cifra di 20 miliardi, in quanto la parte di pagamento come capitale (il resto è assunzione di debito) è di 12 miliardi rispetto ai 10 di Kkr, ma i 2 aggiuntivi sono costituiti da un earn out, ovvero un pagamento condizionato, ma non si sa a cosa. E poiché Tim deve vendere per abbattere un debito non più sostenibile, specie coi tassi in salita, non sono sicuro di capire che differenza faccia se qualcuno si accolla il suo debito o le da liquidità per rimborsarlo.

Tra offerte e delisting

Comunque in entrambi i casi nulla si dice di quale sarebbe il margine operativo lordo (Ebitda) della società della rete: un parametro indispensabile per valutare l’offerta e la sostenibilità del debito che la società della rete si accolla. E neppure quanto personale in eccesso Tim riuscirà a scindere con la rete.

Per il Financial Times, invece, l’offerta migliore sarebbe di Kkr, che il quotidiano invita a rilanciare in quanto il multiplo che pagherebbe (9 volte l’Ebitda) sarebbe inferiore a situazioni analoghe. Dal che si deduce che l’Ebitda implicito nell’offerta Kkr è 2,2 miliardi corrispondente a quanto indicato nel piano triennale predisposto l’anno scorso da Tim.

Infine, sempre dalle indiscrezioni, si apprende che l’azionista di maggioranza Vivendi valuterebbe la rete ben 31 miliardi, e ha ventilato la possibilità di ritirare la società dalla Borsa (sempre secondo le indiscrezioni) per poi fare lei la scissione, piuttosto che venderla a 20. Di qui la decisione del consiglio di amministrazione di Tim di aprire il processo competitivo per alzare le offerte e convincere Vivendi a vendere.

Come fa un investitore a decidere

Tra offerte, contro offerte, rilanci, e possibile delisting, si sta svolgendo una contesa per il controllo su uno dei nostri maggiori titoli quotati, ma di elementi certi non c’è nulla. Mi chiedo come faccia un investitore a decidere se tenere o vendere il titolo, o quando farlo, soltanto sulla base di mere indiscrezioni. I giornalisti fanno il loro mestiere, ma forse la Consob farebbe meglio a chiedere ai vari attori di confermare e precisare i termini delle varie offerte, a maggior ragione adesso quando c’è ufficialmente una contesa in corso. Saranno pure non vincolanti (anche quelle da inviare a Tim entro il 18 aprile), ma sono offerte pubbliche che indicano comunque un valore, e che diventerebbero effettive se si verificassero alcune condizioni. Sono quindi informazioni decisamente price sensitive. Non sono un giurista ma il mio parere è che la vicenda Tim faccia carta straccia della norma sulla market abuse. Quale sarebbe stata la reazione di Consob, giuristi e investitori se si fosse trattato di una società quotata qualunque, senza lo stato e l’"interesse nazionale” di mezzo? Mi sembra una finanza Italian style che ci riporta ai tempi del parco buoi.

Controllo allo stato, dividendi ai fondi

Quale poi sarà il finale di questa vicenda, non escluderei che alla fine Kkr, Macquarie e Cdp si metteranno d’accordo per fare insieme l’acquisizione della rete di Tim, evitando di strapagare nella contesa, per poi fonderla con OpenFiber, ognuno difendendo i propri interessi; e migliorando l’offerta per dare un contentino a Vivendi che comunque non ha molte alternative alla vendita prima che la situazione finanziaria diventi critica.

Insomma il modello misto pubblico-privato già sperimentato in Cdp Reti e Autostrade, che assicura il controllo allo stato e lauti dividendi ai fondi. Quanto alla posizione dominante che si verrebbe a creare, sarà regolamentata in modo generoso: lo stato ha bisogno delle risorse dei fondi per il controllo; e questi ultimi sono noti per avere obiettivi di redditività elevata.

A spese del consumatore

Quanto all’Antitrust europeo sarei sorpreso che si mettesse di traverso visto che di rete unica si parla ormai da anni e il vento nel settore della regolamentazione europea nelle comunicazioni è cambiato, come ha esplicitamente dichiarato il commissario Thierry Breton (incidentalmente ex capo di France Telecom). Ora si guarda con interesse alla fusione in Spagna tra Orange e Mas Movil: se fosse autorizzata rappresenterebbe uno spartiacque perché per la prima volta si passerebbe da quattro a tre operatori telefoni in un grande paese, rompendo una regola aurea della Commissione europea. E se passasse, immagino che il destino di Tim post vendita della rete sarebbe una fusione con uno degli altri tre operatori in Italia per un consolidamento che sembra inevitabile. L’unica certezza è che il consumatore alla fine pagherà di più.

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