La nomina a sottosegretario per l'innovazione tecnologica di Alessio Butti, esperto di comunicazioni del partito di Giorgia Meloni, ha riaperto l'antica querelle su Tim la rete unica a controllo pubblico. A dire il vero nulla è cambiato: sono anni che se ne parla, e da tempo la decisione è stata presa: tranne chi e quanto paga.

Come ho già scritto, Tim ha troppo debito per finanziare gli investimenti nella rete e lo sviluppo del 5G. E ora deve fare i conti anche con l’aumento dei tassi, che farà salire l'onere del rifinanziamento. Inoltre, opera in un contesto altamente concorrenziale, con i quattro operatori imposti dall'Antritrust in ogni paese europeo, e una pesante eredità di costi in un paese dove le ristrutturazioni sono un problema.

Per risanare il gruppo, prima che degeneri nell’ennesima situazione critica, si devono vendere attività per ridurre il debito: è già stato fatto con le torri di trasmissione di Inwit (assieme a quelle di Vodafone) e con l'ultimo miglio della rete internet in Fibercop assieme  al fondo Kkr.

C'è poi la società dei servizi Tim Entreprise per cui ci sarebbe una trattativa con il fondo Cvc. E poi il Brasile, retaggio delle ambizioni espansionistiche di Telecom Italia, ma che per una società ormai focalizzata in Italia non ha alcun senso. Il piatto forte rimane però la fusione di tutta la rete (primaria e secondaria) con quella di Open Fiber in una società a controllo pubblico, per offrire l'accesso all'ingrosso alla rete a tutti gli operatori, telefonici e non (come oggi Sky).

Quello che rimarrebbe di Tim sarebbe un semplice venditore di accesso al dettaglio alla rete (e al mobile), in concorrenza con altre società. E visto che nessun paese europeo oggi regge quattro operatori, potrebbe in futuro fondersi con un altra società telefonica.

La rete unica

LaPresse

Tutti vogliono la rete unica: gli azionisti privati di Tim per risolvere il problema di debito e costi eccessivi, scaricandoli nella nuova società della rete unica che, in quanto monopolio regolamentato e controllato dallo Stato, avrebbe la capacità di sostenerli con stabili flussi di cassa e ampi margini; le società telefoniche per non dover più investire nella rete, riducendo così la competizione; lo Stato per avere il controllo di un'altra società importante e un altro vertice aziendale da nominare, oltre a trovare una via di uscita a OpenFiber, controllata da Cdp, che da sola non è sostenibile; e l’attuale governo, per fare qualcosa che nessuno dei precedenti, di destra o di sinistra, era riuscito a fare.

Per i consumatori non è una buona notizia: finiranno per pagare di più. Ma l'opinione pubblica sarà rabbonita dal sapere che un'infrastruttura strategica per il paese e per l'innovazione tecnologica è saldamente in mani italiane.

Se tutti lo vogliono perché non lo si è ancora fatto? E cosa può Alessio Butti e questo governo di diverso dai precedenti?

Il primo problema è che scissioni e fusioni così complesse non si possono fare con una società quotata, anche perché i piccoli azionisti avrebbero gioco facile ad alzare la posta per la loro fetta.

Il fondo Kkr aveva avanzato a suo tempo un'offerta per ritirare la società dal mercato e fare la ristrutturazione (offrendo, incidentalmente, il doppio del valore attuale di Tim), ma ha incontrato l'opposizione di Vivendi (socio di maggioranza relativa) che ha pensato di far da sé la stessa operazione, lasciando la società quotata, anche perché non aveva le risorse per un'offerta.

Modello Autostrade

Così Tim è oggi al punto di prima. Arriva il Governo Meloni e voci di mercato indicano che il suo piano consisterebbe nel chiedere a Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) di fare l'opa su TIM per poi procedere con la rete unica e le scissioni. Ma Cdp non ha i soldi per farlo e ha già un capitale eccessivamente immobilizzato in partecipazioni azionarie; se poi dovesse consolidare anche il debito di TIM aumenterebbe il rischio paese.

A questo punto però il mercato scommette che l'Opa si farà per eliminare l'ostacolo delle minoranze e il titolo è salito a  25 centesimi: non saranno i 50 della vecchia offerta Kkr, ma sempre meglio dei 17 centesimi a cui era crollata TIM. Ma chi può farla? 

Probabilmente sarà congiunta con Cdp, Vivendi, il fondo KKR (già in Fibercop) e il fondo Macquire, socio in Open Fiber.

Il rischio, ma forse più la certezza, è che si ripeta l'operazione Autostrade: lo Stato vuole controllare, ma non ha i soldi per farlo e quindi finanzia l'acquisizione coi soldi di fondi di private equity in cambio della promessa di mantenere tariffe elevate, e distribuire lauti dividendi anche a costo di assorbire risorse finanziarie altrimenti destinati agli investimenti.

Era inevitabile che finisse così? Assolutamente no; saremo infatti l'unico paese occidentale con la rete unica di stato. Ma dati il perdurare della debolezza finanziaria di Tim la mancanza di crescita del paese, l'elevata concorrenza e criticità del settore in Europa e lo scenario di aumento dei tassi, si rischiava un'altra crisi di una grande azienda. Sarà pure un progetto strategico, ma la rete unica assomiglia parecchio all’ennesimo salvataggio pubblico.

Troppa concorrenza?

L'Europa aveva scelto la concorrenza per rompere il monopolio di Stato che prevaleva in ogni paese, e imposto la concorrenza con quattro operartori. Il modello ha funzionato egregiamente, ma non è più sostenibile: dove c'è un'elevata concorrenza, prezzi e margini sono più bassi, ma vengono a mancare le risorse generate internamente per sostenere gli ingenti investimenti che rete, 5G e acquisizione di contenuti richiedono. E' un vecchio trade off.

L'Antitrust europeo continua a ritenere che sia la concorrenza, non le aggregazioni, a promuovere gli investimenti. Una convinzione non supportata però dai dati: Stati Uniti e Giappone, con il minor numero di operatori, hanno investimenti pro capite nelle comunicazioni doppi rispetto a Italia e Germania. Così l'ex monopolista tedesco DT vende le torri di trasmissione a fondi di private equity per destinare il ricavato a consolidare il controllo di T-Mobile, leader negli Usa nel 5G (e anche nei margini).

Ora si attende il pronunciamento della Corte di Giustizia Europea sulla fusione in Gran Bretagna tra la 3 di Hutchinson e la O2 di Telefonica, bloccata dall'Europa nel 2016.

Se l'Antitrust soccombesse, ci sarebbero un'ondata di fusioni e scissioni: 3 questa volta con Vodafone in UK; Orange con Mas Movil in Spagna e con VOO in Belgio.

Nel frattempo, tutti cedono e fondono attività:  DT, Vodafone, Orange vendono le torri di trasmissione, come già Telefonica, TIM e Wind.

L’italianità

Pensare al futuro di Tim in questo contesto come una mera questione di italianità è fuori dal tempo. Fa sorridere poi il tentativo di risollevare per sorti Tim con lo sport di Dazn: in streaming, contenuti e diritti sportivi è ormai in atto una feroce guerra planetaria. Netflix ha perso il primato a favore di Disney+ a costo però di un raddoppio dei costi operativi che hanno affossato il titolo.

Tutte le major americane sono entrtate nello streaming con enormi risorse in una concorrenza spietata: Comcast, già proprietaria di Sky, ha lanciato Peacock; Warner Bros ha HBO max e Discovery+; Paramount ha Paramount +; naturalmente ci sono anche Amazon con Prime Video e Apple con la sua TV.

Ognuna dalla produzione di contenuti e streaming vuole estendersi ai diritti sportivi e apre ad abbonamenti economici con la pubblicità.  E già si parla di great rebundling con contenitori che offriranno i contenuti di tutti.

L'era delle società telefoniche come media company è finita per sempre. Come è fuori luogo pensare ancora al duopolio Rai/Mediaset nella tv quando ormai l'intrattenimento on demand via internet è la realtà per molti italiani.

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