Non è ancora chiaro quando, al termine delle udienze di martedì e mercoledì, l’Alta corte di Londra renderà noto se Julian Assange avrà ancora o meno la possibilità di ricorrere a qualche organo di giustizia britannico contro la richiesta di estradizione presentata dagli Stati Uniti. Potremmo saperlo alla fine della giornata, così come tra giorni o settimane.

Assange ha già trascorso quasi cinque anni nella prigione londinese di massima sicurezza di Belmarsh, dove è detenuto dall’aprile 2019. Da allora, la sua salute fisica e psicologica si è logorata in un estenuante rimbalzo della sua vicenda da un tribunale all’altro del Regno Unito.

Se dovesse perdere l’ultimo appello, ogni altra via legale nel Regno Unito gli sarebbe preclusa e non gli resterebbe che presentare un ricorso alla Corte europea dei diritti umani.

Cosa rischia

Non è tuttavia certo se la Corte vorrà garantire delle misure ad interim per fermare l’estradizione prima che la sua istanza sia giudicata ammissibile e poi valutata nel merito. L’offerta da parte degli Stati Uniti di una “assicurazione diplomatica” sul trattamento “umano” del detenuto Assange potrebbe bloccare l’adozione di tali misure. In sostanza, la promessa che non lo sottoporrebbero a maltrattamenti e torture. Un’assicurazione che vale meno del pezzo di carta su cui è stata scritta.

Se estradato, Assange potrebbe subire una condanna fino a 175 anni di carcere per violazione della Legge sullo spionaggio del 1917. Ma perché?

La storia

Facciamo un passo indietro, al 2010, quando il portale WikiLeaks – cofondato da Assange nel 2006 – rende di pubblico dominio oltre 251.000 documenti diplomatici statunitensi, molti dei quali etichettati come “confidenziali” o “segreti”.

Tra questi, una serie di notizie fornite dall’allora soldato Bradley Manning – ora, Elizabeth Chelsea Manning – su possibili crimini di guerra perpetrati dagli Usa durante le operazioni militari degli anni precedenti in Iraq e Afghanistan: torture, uccisioni deliberate di civili inermi – bambini e giornalisti inclusi – e dei loro soccorritori.

Inizia la caccia all’uomo.

Nel 2012 Assange si rifugia nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra. L’allora presidente Rafael Correa gli concede protezione perché ritiene reali le preoccupazioni del fondatore di WikiLeaks che l’estradizione in Svezia – dove nei suoi confronti è stata aperta un’indagine per accuse di stupro, mai andata avanti e poi archiviata – lo esporrà al rischio di estradizione negli Stati Uniti. Qui, dal 2010, è in corso un’inchiesta del Grand Jury di Alexandria, in Virginia, per la pubblicazione dei documenti segreti sopra menzionati.

L’11 aprile 2019 Assange viene preso in consegna dalla polizia britannica dopo che l’Ecuador, il cui governo è cambiato, gli ha revocato l’asilo. Da allora, inizia la detenzione all’interno del supercarcere di Belmarsh.

Secondo Amnesty International, le accuse di spionaggio contro Assange sono motivate politicamente e violano il diritto alla libertà di espressione. Assange non può essere considerato una spia – tale sarebbe chi vende informazioni segrete al nemico – perché ha semplicemente ottenuto e divulgato all’opinione pubblica documenti riservati.

Il giornalismo non è un crimine

Insomma, la pubblicazione da parte di Wikileaks di documenti rivelati all’organizzazione da altre fonti rientra nella condotta che i giornalisti investigativi possono legittimamente tenere nell’ambito della loro attività professionale.

Soprattutto, la documentazione riguardante possibili crimini di guerra commessi dall’esercito statunitense è di rilevante interesse pubblico. I cittadini vogliono sapere, i governi vogliono nascondere, la vicenda di Assange si colloca in questo conflitto che riguarda profondamente i diritti umani: in particolare, quello alla libertà d’informazione.

Se Assange venisse estradato, si verificherebbe un fatto paradossale e grottesco: non sarebbero puniti coloro che hanno ordinato e commesso crimini di guerra bensì colui che li ha resi noti.

Facilmente immaginabile, inoltre, sarebbe la ricaduta che avrebbe l’estradizione di Assange sulla libertà d’informazione a livello globale: un governo potrebbe andare a caccia di giornalisti “nemici” in giro per il mondo, spingendo le autorità degli stati nel cui territorio si sono rifugiati a consegnarli. Per evitare tutto questo, i giornalisti potrebbero ricorrere all’autocensura. Sarebbe il trionfo del giornalismo “embedded”, l’unico tollerato.

Per questo è fondamentale affermare un principio: il giornalismo non è un crimine.

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