Da qualche tempo è venuto di moda licenziare attraverso i social, o con procedure informali. È capitato in vertenze di interesse nazionale, ma anche in casi singoli. È montata l’indignazione sul modo con il quale vengono affrontate le crisi industriali.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il caso di Alessandra Cielidoni, che, mentre era in smart working, ha ricevuto una videochiamata tramite Teams, e, nel giro di un’ora, le sono stati disattivati tutti gli strumenti di lavoro dalla Yazaki, l’impresa per la quale prestava la sua opera. In risposta a questi casi, il governo italiano ora sta per emanare un provvedimento che introduce una sorta di regola di Galateo per i licenziamenti: mai più con i social media.

Un emendamento proposto nella legge di stabilità 2022, ora in discussione in parlamento, stabilisce che – nelle aziende con un numero di addetti superiore a 250 unità, nel caso in cui si debba dichiarare la cessazione delle attività per un numero di lavoratori non inferiore a 50 - deve essere utilizzata esclusivamente la forma scritta verso tutti i soggetti sociali ed istituzionali, con un preavviso di 90 giorni.

Entro 60 giorni il datore di lavoro è tenuto ad elaborare un piano per limitare le ricadute occupazionali. I lavoratori potranno beneficiare del trattamento straordinario di integrazione salariale.

Provvedimenti

Da un certo punto di vista non si può che plaudire alla iniziativa: comunicare licenziamenti è una operazione così dolorosa e delicata che anche i modi hanno una loro rilevanza. Al di là della eleganza o della rozzezza dello strumento utilizzato dalle imprese per comunicare ai lavoratori la cancellazione di attività o la chiusura di fabbriche, si tratta di mettere in campo meccanismi che cerchino di governare le ristrutturazioni aziendali.

Sempre in questo stesso provvedimento, si stabilisce che – in caso di mancata presentazione del piano per il contenimento delle perdite occupazionali, o se il piano stesso venga giudicato insufficiente – il datore di lavoro è tenuto a pagare un contributo doppio rispetto a quanto previsto dalla vigente normativa. Alla grande impresa viene richiesto un ruolo attivo per attenuare l’impatto della crisi. Ma questo provvedimento non interviene ancora affrontando il cuore del problema.

Le delocalizzazioni sono un percorso di lungo periodo, avviatosi negli anni Ottanta del passato secolo, con i processi di globalizzazione che hanno spostato attività produttive dall’occidente verso i paesi di nuova industrializzazione, in particolare in Asia.

Non sarà certo il Galateo dei licenziamenti a fermare le delocalizzazioni, e nemmeno qualche misura tendente ad introdurre strumenti di mitigazione sociale certamente opportuni. Forse è giunto il momento per articolare e proporre misure maggiormente incisive e coraggiose.

Non si è messa in campo finora la leva fiscale, che pure potrebbe determinare un effetto sostanziale sulle scelte delle aziende. Un uso di questo strumento potrebbe determinare un cambiamento delle convenienze imprenditoriali, almeno nel caso in cui le dimensioni aziendali siano rilevanti dal punto di vista dell’occupazione.

Vediamo come la politica fiscale può incidere sui meccanismi di localizzazione aziendale. Si potrebbe assegnare una riduzione sul carico fiscale di un punto ad una azienda che assume 10 lavoratori, nell’anno in cui tale decisione viene assunta, e poi per i successivi tre esercizi.

La leva fiscale

Misura simmetrica dovrebbe essere applicata in modo inverso a una impresa che licenzia: per ogni dieci lavoratori messi in mobilità va aggiunto un punto di maggiore carico fiscale, per l’anno corrente e poi per i successivi tre esercizi. Le risorse che deriverebbero da questo maggiore carico fiscale andranno essere convogliati in un fondo per il sostegno alla formazione e alla riconversione dei lavoratori posti in mobilità.

Nel caso in cui una azienda decida di chiudere il proprio stabilimento in Italia, per collocarlo in altro territorio, dovrebbe essere applicata una tassazione per quell’anno maggiore di dieci punti rispetto al carico fiscale ordinario; anche queste risorse dovrebbero confluire nel fondo. Si applicherebbe in questo modo una sorta di buonuscita al contrario, per disincentivare scelte di delocalizzazioni che oggi vengono compiute senza pagare alcun dazio.

Si potrebbe sostenere che, applicando questa proposta, venga introdotto un meccanismo fiscale disincentivante per la localizzazione delle aziende industriali nel nostro paese. Non è così, perché chi si insedia ottiene immediatamente, per ogni 10 lavoratori assunti, un bonus fiscale di un punto percentuale. Seguendo la logica della proposta, nel caso in cui venga aperto in Italia un nuovo stabilimento con 101 dipendenti, il risparmio fiscale sarebbe pari al 10 per cento, e per tre anni.

Armi non convenzionali

Andrebbe valutato anche se introdurre una seconda variabile per l’accesso all’incentivo fiscale per le imprese che assumono: non solo l’occupazione generate ma anche gli investimenti attivati. In questo modo si genererebbe un volano di attività economica adeguato anche a consentire il recupero, almeno in parte, degli introiti fiscali a cui rinunzia lo stato con questa proposta di riforma fiscale.

Di fronte a sfide inedite, serve mettere in campo armi non convenzionali, utilizzando tutto lo spettro delle armi che sono nella disponibilità dei pubblici poteri. Troppo spesso abbiamo assistito in questi anni all’impotenza della politica e delle istituzioni. Forse, sarebbe l’ora di cambiare passo.

Difendere il lavoro è possibile. Costruire il futuro anche. Ma ci vuole coraggio e iniziativa. Oltre ad abolire i licenziamenti via social, andrebbero aboliti anche i messaggi solidali, ma vuoti di iniziativa, da parte dei politici che sanno solo fare chiacchiere, per lasciare spazio alle iniziative dei politici che hanno voglia e coraggio di affrontare le sfide della modernità.

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