Dunque, cambiamo, anzi continuiamo a cambiare, anche se con lo stesso primo ministro. Ieri il Partito democratico ha pubblicato un post con le parole con cui il segretario Nicola Zingaretti ha aperto la direzione del partito: «Il Partito democratico ha una sola parola ed esprime un nome come possibile guida di un nuovo governo di cambiamento. Quello di Giuseppe Conte».

Prima di Zingaretti anche Matteo Salvini e Luigi Di Maio avevano rivendicato il governo del cambiamento, allora con l’articolo determinativo e con tanto di contratto. Zingaretti dice «un nuovo governo di cambiamento», presupponendo dunque che ne abbiamo già avuto uno di cambiamento, il Conte due, che si suppone cambiava rispetto al primo governo del cambiamento, cioè il Conte uno.

Change

Negli Stati Uniti a cui spesso l’Italia copia idee politiche come fossero insegne di una catena di franchising, «change» fu uno dei grandi slogan della prima campagna di Barack Obama nel 2008. Quello slogan, al netto di alcune pesanti continuità per esempio sul fronte delle politiche della sorveglianza, era però, come raramente succede in politica, pieno di sostanza. Allora si chiudeva l’era iniziata con l’11 settembre e terminata con lo scoppio della crisi finanziaria dei subprime, si chiudeva la presidenza di George W. Bush, l’era delle guerra al terrore, della democrazia da esportare e degli stati canaglia, e si presentava un candidato che sarebbe diventato il primo presidente afroamericano deciso a cambiare almeno in parte l’agenda del suo stesso partito, cambiando rotta sulla politica fiscale e quella energetica e modificando in profondità le direttrici della politica estera americana: anche se poi è arrivato Trump, quel change chiudeva l’era neocon e apriva l’era neodem.

Il governo del cambiamento

In Italia il «contratto del governo del cambiamento» è stato sottoscritto nel 2018 «dal signor Luigi Di Maio, capo politico del Movimento 5 stelle» e dal «signor Matteo Salvini, segretario federale della Lega». Il governo del cambiamento giallo verde, se dobbiamo stare al significato e alla sostanza della parola, aveva tutti i diritti per chiamarsi tale: per la prima volta nella sua storia il Movimento 5 stelle arrivava al governo, per la prima volta la Lega governava fuori dal centro destra, per la prima volta salivano al potere due partiti dichiaratamente anti europeisti. Di cambiamenti, positivi o meno, ce n’erano sicuramente molti.

Nei giorni anche allora convulsi delle negoziazioni per la formazione del governo, Di Maio usava però lo slogan efficace del cambiamento, coniato dalla comunicazione Cinque stelle, come se fosse un passepartout, la garanzia in sé di qualcosa di positivo, tanto che su Facebook accusava Salvini non solo di non aver accettato la sua proposta per «il governo del cambiamento» e di essere tornato da Berlusconi, ma anche di «non voler formare un governo del Cambiamento del centrodestra, ma evidentemente un governo dei voltagabbana». Con il sottinteso che se Salvini col centrodestra, e quindi per definizione non con una coalizione progressista, avesse creato un governo del Cambiamento sarebbe già stato un passo avanti: almeno, sia chiaro a tutti, le cose sarebbero cambiate.

E poco importa il merito dei cambiamenti, cosa si fa realmente di questioni come ricerca, immigrazione, fiscalità, voci peraltro su cui negli ultimi governi si è registrato un alto grado di continuità più che discontinuità. Il cambiamento ha successo in sé, come prima di lui il riformismo e la rottamazione, chiedere a Giovanni Toti, che un anno dopo ha chiamato Cambiamo!, con tanto di punto esclamativo, il suo movimento che si ispira ai valori «della tradizione liberal democratica conservatrice».

Rivoluzionari e istituzionali

Nel frattempo siamo passati dal governo leghista a quello M5s – Pd, nato di fatto per esclusione da due partiti che per usare un eufemismo mal si sopportavano, ma che secondo diversi analisti potrebbe aver ricomposto i due poli tradizionali di centrodestra e centrosinistra.

La comunicazione del Pd, però, nel momento della crisi sottolinea il cambiamento senza aggettivi che ne qualifichino la direzione o la posizione rispetto alle scelte passate. Quello che non è da cambiare è Conte che sarebbe «non solo ingiusto, ma irrealistico e avventuroso cambiare».

Essendo stato lui primo ministro del governo del cambiamento e candidato per un nuovo governo di cambiamento, deve essere una garanzia di cambiamento. Il governo ormai o è di cambiamento o non è. Come il partito rivoluzionario istituzionale del Messico, quello almeno ha governato in modo rivoluzionario per 71 anni ininterrotti.

 

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