In queste settimane il tema dei migranti è stato sviscerato da tutti i lati: politico, demografico, economico e (meno) antropologico o religioso. Manca un aspetto che a me pare interessante: il tema dei migranti utilizzato come oggetto di consumo.

Consumo verbale, prima di tutto: paginate in tutti i giornali, ore di trasmissioni televisive, spreco di opinioni sui social, conversazioni più o meno intelligenti al bar o in famiglia. I migranti sono un buon argomento, evitano silenzi o pensieri più molesti.

Consumo terapeutico in secondo luogo, perché utili al nostro equilibrio psichico: invidiamo i migranti perché fanno una cosa che gli europei non vogliono più fare, credono in un futuro migliore. Ma allo stesso tempo sfoghiamo su di loro le nostre frustrazioni, il nostro bisogno di commuoverci e la consolazione di sapere che qualcuno sta peggio di noi. Sono una palestra per emozioni a basso costo.

In terzo luogo, consumo artistico: l’arte (come è suo compito e sua natura) permette un approfondimento, un rovesciamento degli stereotipi e dei punti di vista; combatte le retoriche più pigre (lo scafista da mettere in galera e basta, il trafficante diabolico e senza attenuanti per definizione) ma non può sottrarsi a logiche commerciali, editoriali e di spettacolo.

Epica contemporanea

Quasi inevitabilmente, la migrazione viene interpretata come epica contemporanea, il Viaggio sembra fatto apposta e nessun’altra epica pare in vista. L’epica (come vogliono le sue convenzioni e la sua storia) tende a porre un confine netto tra bene e male, eroicizza i protagonisti ed è poco propensa a vederli come individui problematici; l’epica mette in rilievo alcuni valori fondanti e l’epica delle loro vite, scritta da noi, finisce per evidenziare i nostri valori (l’esaltazione dell’io, la democrazia, il successo, la compassione cristiana).

Ci sfilano davanti agli occhi immagini di ragazzi neri che fanno con le dita il segno di vittoria, di donne nere incinte, di persone stremate che chiedono acqua o si ribellano con le ultime forze. Ci preoccupiamo dell’ordine pubblico o stiamo dalla loro parte, divarichiamo in fazioni avverse due problemi (come ridurne il numero e come accoglierli) che palesemente sono complementari.

Non abbiamo modo di riflettere e di capire che non basta il colore della pelle a rendere simili; tra le diverse etnie africane ci sono più differenze che tra un italiano e un tedesco, le culture altrui entrano nel cono dei riflettori solo quando si mostrano renitenti all’assimilazione e creano difficoltà. Questo impedisce il passaggio dal consumo alla conoscenza.  

La complessità che si perde

Che grande occasione perduta; in centinaia di migliaia stanno portando a casa nostra culture e modi di vedere il mondo che sarebbero confronto e ricchezza, e noi li guardiamo solo come un peso, o come proiezioni dei nostri sensi di colpa, o come vittime su cui piangere, o eroi da ammirare.

Che ne sappiamo, davvero, delle loro ipocrisie, delle bugie che raccontano a casa o che raccontano a sé stessi, della loro sessualità, dei loro pensieri cattivi, dei loro tradimenti ?

L’Africa è in travaglio, non è più quella dei nostri miti, avrà un ruolo importante nei futuri assestamenti geo-politici; gli eroi-vittime sono anche sintomi, messaggeri; il loro rapporto coi luoghi di provenienza è la pedina di un gioco che sta cambiando il mondo. Le cose non capite ci piomberanno addosso come una valanga: non si potrà più ridurre la questione a un trend estivo da mare in bonaccia, o a uno spauracchio perennemente elettorale.

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