A noi figli della modernità, tremanti al cospetto di ogni mutamento, appare inconcepibile immaginare che un tempo ci fosse chi attendeva con fiducia la fine del mondo.
I Tessalonicesi a cui scriveva Paolo di Tarso erano tanto impazienti di assistere all’Apocalisse, da rammaricarsi della mancata venuta dell’Anticristo: simbolo dell’inevitabile cataclisma che precede e annuncia l’avvento del Regno dei Cieli. Per spiegarne il ritardo, l’apostolo parlò di un katéchon, una forza che lavorava per contenere la catastrofe, per frenarla, rimandando così, loro malgrado, anche l’agognata salvezza.
L’Armageddon che incombe
Oggi sembra vero l’opposto: incapaci di proiettarci oltre un presente in decadenza, ci aggrappiamo con affanno ad un katéchon che pretendiamo esser pronto a respingere l’Armageddon. Che questo sia imminente, nessuno pare più dubitarne: una “nuova” recessione economica è alle porte, il cambiamento climatico è ogni giorno più rovinoso, le armi, anziché silenziarsi, crepitano con forza e un’orda travolgente di genti affamate si riversa sulle nostre coste. La profezia riecheggia sui media del mondo: i moderni Quattro Cavalieri giungeranno presto al galoppo.
E se del katéchon di san Paolo non si hanno certezze, ciò a cui noi aneliamo è ben evidente: ci appelliamo alla politica affinché riesca a frenare l’imminente catastrofe che ci viene incontro. Illusoria chimera: ovunque essa annaspa, nell’intento di arginare le continue emergenze. Vara manovre palliative, subito soverchiate dall’impeto dell’inflazione, appare incoerente sulle questioni ambientali, sopraffatta dalla guerra e più che mai imbarazzata nel domare “l’assalto alla fortezza” dell’occidente. Cambiano governi e capi di stato, ma il nostro scivolare verso il baratro non può che perdurare: e non è colpa di singoli attori, ma della trama che abbiamo scritto noi stessi.
Abbiamo reciso con forza — e con ragione — radici che inceppavano la nostra libertà: correnti globali facili e fluide muovono merci e capitali, persone e ideali; specchio di un mondo dove tutto scorre, veloce e inesorabile, in un turbinio di progetti e ambizioni, sogni e delusioni. Eppure, già Simone Weil ci ammoniva: là, dove tutto è sradicato, è impossibile alcuna forma di contenimento. Oggi pare non esserci né legge né potere capace di riporre questa società liquida all’interno della forma da cui è fuoriuscita.
Paralizzati dalla paura
Il nostro peggior peccato, tuttavia, potrebbe non essere quello di aver scavato il baratro, ma quello di non esserci ancora saltati dentro. Sul suo ciglio, paralizzati dalla paura, ci avvinghiamo al nostro katéchon, pur consci che non reggerà a lungo. Ma il terrore, malauguratamente, non è ancora disperazione: la certezza di un destino determinato, ancorché infausto, sarebbe condizione più tollerabile rispetto all’inquietudine permanente a cui siamo soggetti. Dal fondo del baratro non avremmo altra scelta se non quella di partire da capo, per immaginare ed edificare il nostro nuovo Regno dei Cieli.
Lo sa bene chi ha già vissuto la propria Apocalisse e, per questo, non esita a mettersi in cammino: proprio quei migranti che cerchiamo di contenere invano, simbolo mordente della speranza nata dalla disperazione.
La racconta Domenico Quirico, che con quei migranti ha condiviso il viaggio: non c’è modo di piegare l’irrefrenabile voglia di vivere di chi è già morto. Un paradosso che dovrebbe scuoterci: loro, giacché periti, possono disperatamente sognare un futuro; noi, che ci appigliamo a ogni soffio d’aria, smettiamo di vivere per paura di morire.
Una prospettiva alterante, di cui ogni parte della società potrebbe in verità arricchirsi: a cominciare dalla politica, nell’attesa che maturi la coscienza per cui, di fronte al limite di ciò che è incontrollabile, occorre provare a spiegare, prima ancora che saper contrastare. Chissà che, partendo da questa comprensione, sapremo vedere che, in fondo, la fine di un tempo non coincide per forza con la fine del mondo.
© Riproduzione riservata