Ci sono montagne sconosciute e impraticabili perfino per gli alpini. Abbiamo imparato questo, dalla brutta vicenda dell’adunata di Rimini. E cioè che l’orografia sociale è cambiata profondamente negli ultimi anni e che chi non si evolve, chi non sviluppa nuove consapevolezze e sensibilità, rischia di consultare una mappa antidiluviana, finendo all’addiaccio, spennato pure sul cappello.

Ho pensato questo, vedendo le reazioni scomposte degli alpini e delle truppe in loro supporto in questi giorni. Che facevano perfino un po’ tenerezza, conviti com’erano che le modalità tradizionali dei loro raduni potessero essere intoccabili. Che le molestie, il catcalling, le volgarità sessiste e gli abusi potessero rimanere immutabili nei secoli, come la statua di Santa Rosa portata a spalla a Viterbo o il rituale del sangue di San Gennaro.

Le ragazze si ribellano

Chissà che botta deve essere stata scoprire che le donne, nel 2022, parlano, denunciano, si ribellano. Che non considerano un cerimoniale irrinunciabile una mano sul sedere o un inseguimento per strada.

Perché una certezza, alla fine di questa storia, l’abbiamo: non tutti gli alpini sono dei molestatori (chi l’ha mai detto poi?) ma in tutti i raduni degli alpini c’è sempre stato uno schema preciso e identico negli anni e nella varie città, in cui gli accadimenti erano sempre questi: il branco, l’abuso di alcol, la ricerca della preda, anche minorenne, epiteti gridati nelle piazze e per strada, catcalling da parte di giovani e anziani, palpate su seno e sedere in mezzo alla folla, frequenti accerchiamenti con la preda stretta in mezzo, avvicinamenti molesti anche in presenza di mariti, fidanzati, padri e madri, episodi di inseguimenti a piedi e in macchina, ragazze prese di peso, sollevate e portate su carretti e camioncini su cui venivano apostrofate, toccate, molestate. Nel caso del raduno dell’Aquila nel 2015 si è consumata anche una violenza sessuale ai danni di una quindicenne, con una condanna. 

Questo è accaduto sempre, le testimonianze sono centinaia e raccontano fatti identici, ricorrenti dagli anni ’80 ad oggi. E confermati anche da uomini, non solo da femministe isteriche, frigide, magari pure lesbiche, che da una vita covavano il sogno proibito di annientare il corpo degli alpini.

La differenza tra il prima e l’oggi è però una rivoluzione non da poco, che ha lasciato tramortiti i decrepiti sacerdoti del patriarcato, quelli convinti che le donne abbiano ancora problemi nel parcheggiare in retromarcia: prima le donne stavano zitte. Subivano. Ritenevano quelle molestie un orribile rituale mascolino a cui non ci si poteva sottrarre.

E no, non tutti gli alpini partecipavano al banchetto, non c’è dubbio, ma la solita storiella delle mele marce è una grossa bugia. Le mele, nel migliore dei casi, sapevano. Gli atteggiamenti molesti non erano né pochi né sporadici. Erano un rito ben noto a cui qualcuno aderiva (e anzi, ci andava per questo), a cui qualcuno non aderiva ma faceva finta di niente e continuava ad andare.

Qualcuno, almeno così racconta qualche testimone, si sentiva a disagio e non andava più. Però non sollevava la questione nelle sedi ufficiali o attraverso i media, evidentemente. Nel frattempo, per fortuna, le donne hanno iniziato a parlare. Il fiume di testimonianze ha sgretolato un edificio vecchio e pericoloso che rimaneva in piedi nonostante tutto.

C’è una nuova generazione di donne con una consapevolezza, una potenza, una capacità di aggregazione che sta davvero ridisegnando il mondo, riscrivendo le regole, pretendendo quello che ci spetta. Molte sono giovanissime, ma con una voce adulta e una cultura sulla parità di genere che fino a pochi anni fa era impensabile.

È questo che ha destabilizzato la truppa becera di alpini, giornalisti, politici, semplici commentatori. L’idea che “le ragazzine” si siano ribellate. Che le ancelle abbiano fatto cadere il vassoio. Che si sia consumata la lesa maestà: “le schiocchine" non sono più lusingate dalla bava del maschio con l’uniforme.

Giustificazioni

E allora sono senz’altro le femministe, le cesse a cui nessuno fa un complimento, le sinistroidi. Le frigide. Immediatamente s’è alzato il muro che si alza sempre quando una donna o duecento donne iniziano a denunciare, un muro che segue sempre le stesse dinamiche. La prima, quella della delegittimazione: era tutto preparato, erano quelle del movimento di sinistra, sono isteriche che non sanno accettare complimenti.

Di solito, arriva anche la truppa di donne ancelle in soccorso del maschio, tra le tante Anna Falchi la quale ci fa sapere che soprattutto a 50 anni il catcalling fa piacere e poi ora col bonus facciata è pieno di rozzi operai che apprezzano le femmine per strada. Che uno pensa: peccato non sia rimasta in Finlandia, lì sì che avrebbe imparato qualcosa. Quelle che siccome loro amano essere trattate come il prosciutto appeso al gancio, si sentono pure emancipate in un mondo di bigotte.

Dopo la delegittimazione c’è il secondo passaggio: il complottismo becero. C’è sempre un movente che muove le donne, quando parlano. In questo caso l’esilarante “vogliono infangare il glorioso corpo degli alpini”. Carlo Giovanardi ha parlato proprio di “piano” e non solo lui. Immaginate queste centinaia di donne riunite in uno scantinato mentre partoriscono strategie per annientare gli alpini.

Poi c’è la politica che si vuole tenere buoni i voti degli alpini e degli iscritti all’Ana, dei familiari degli alpini e degli iscritti all’Ana, dei soldati professionisti e degli adoratori delle divise. Quella politica che siccome non sa come fare contenti tutti, le isteriche e i bavosi, allora recita il copione costante: «Se ci sono episodi gravi è giusto che si accertino le responsabilità, ma non si può gettare fango sull’intero corpo». C’è un altro passaggio immancabile, quello della stampa in soccorso dei maschi.

Memorabile un articolo del Gazzettino: «La moglie di una penna nera racconta: macché molestie, all'Adunata io mi sono innamorata». C’è anche gente che si è innamorata all’ospedale o alle terme per curare i funghi ai piedi, se è per questo. Il passo successivo, particolarmente amato dalla politica, è «se non denunci non è vero».

Come se il catcalling o la molestia poi fossero sempre perseguibili penalmente, come se non si sapesse che, specie parlando di un’adunata con migliaia di uomini,  andare a denunciare una mano di non si sa chi che in piazza ti ha palpato il sedere, sia inutile. Cosa dai, l’identikit del palmo?

È invece utile denunciare il fatto pubblicamente, mediaticamente, partecipare a una rivoluzione culturale più che (in certi casi) a un inutile percorso legale. Cento mani e cento epiteti in una piazza possono essere un groviglio confuso di facce, ma nella testimonianza nitida, cristallina di cento ragazze diventano un colpevole chiaro, manifesto: il maschio che esercita il suo potere.

Questo non vuol dire che non si debba denunciare. Anzi. Ma fingere di non sapere che in contesti simili abbia più probabilità di cambiare la storia dire le cose ad alta voce piuttosto che depositare una denuncia contro sconosciuti, è da vigliacchi, da complici di chi allunga una mano nella folla o ti molesta confuso nel branco proprio perché conta sull’impunità. 

Questa volta le donne hanno parlato. E sì, l’unico segnale forte che i piani alti del corpo degli alpini potrebbero lanciare è sospendere almeno per un anno l’adunata. Vanno di moda le sanzioni, forse è il caso di applicarne una anche qui. Ma figuriamoci se un alpino abbassa le penne. Aspetta che sia la storia, a farlo. E la storia, lui non lo ha ancora capito, ha iniziato da qui. 

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