È sconfitta, anche nelle Marche. Terra storicamente segnata da elevato e diffuso civismo. Amica, un tempo. Soprattutto, i dati confermano la caduta agghiacciante di credibilità delle istituzioni.

Certo, la Regione è l’ambito nazionale più mortificato dai cittadini (a proposito di autonomia differenziata), ma il distacco è generale, per ogni livello di governo, ovunque in Occidente. Al di là delle recite di circostanza, nei commenti a caldo, nell’opinione pubblica più avvertita e nelle classi dirigenti, la rassegnazione lascia sempre più spazio al sollievo. Per due ragioni. Primo, l’anemia elettorale ha una netto segno di classe: è inversamente proporzionale al reddito, marchia le periferie economiche. Lavoro e classi medie colpite dal dominio neoliberista vanno fuori gioco.

L’agenda di governo rimane in mano agli interessi forti. Secondo, il popolo è massa facilmente infiammabile, pericolosa, tanto più in uno scenario di deprivazione sociale e spirituale, eccitato dall’isolamento digitale. Meglio un regime senza popolo, tecnocratico, che una deriva populista. Sono le illusioni di un’élite a legittimità morale minima, irrimediabilmente consumata dall’inerzia complice del genocidio a Gaza, ma impegnate a cercare la guerra ‘europea’ per puntellarsi.

Le nostre celebrate democrazie sono malate, gravemente. È deficit di potenza della politica: ancella dell’economia, non si rialza per rispondere alle insorte domande di protezione sociale e identitaria e alla ricerca di senso. Non è un vento di stagione. È un male profondo.

La sinistra, l’area progressista, paga inevitabilmente il prezzo maggiore, anche quando vince. Ma non si misura con la causa ultima della deriva: il disfacimento del popolo, oltre che della soggettività politica del lavoro, sotto i colpi della divina concorrenza, sleale e senza le finalità sociali prescritte dalla nostra Costituzione, imposta dai Trattati europei, oltre che dai diktat imperiali ora stravolti.

Il nodo, asfissiante per chi è nato per il riscatto dei sudditi, è indagato lucidamente da Antonio Cantaro, costituzionalista all’Università di Urbino, già presidente del Centro per la Riforma dello Stato, in una raccolta appena pubblicata. Il titolo è tagliente. Temerario a sinistra: “Amato popolo. Il sacro che manca, da Pasolini alla crisi delle democrazie” (bordeaux, 2025). Nei testi, è svelata, innanzitutto, la comune matrice ideologica di tecnocrazia e populismo: la negazione dell’insuperabile unicità di ogni persona.

L’una riduce l’individuo a consumatore omologato e isolato; l’altro, lo massifica nella moltitudine indistinta. Poi, l’autore prospetta l’alternativa possibile: il “popolo dei moderni”. È un noi di esseri umani in relazione comunitaria. Ha confini. È nazione. Ma “non vive di vita propria, esiste solo nel soggetto che lo rappresenta”. È compito della sinistra orientarlo in senso costituzionale. Per riconquistarlo, dovrebbe tornare ad amarlo. È una sfida ardua. Richiede “l’umiltà del male”. Ti puoi perdere, ma la devi affrontare, ammoniva inascoltato il nostro Franco Cassano.

A tal fine, l’autore richiama, controvento, la funzione degli intellettuali. Nessuna invocazione dell’ “intellettuale organico”. Del resto a quale soggetto politico, a quale cultura politica, dovrebbe riferirsi organicamente? Prima di ricostruire, è necessario ‘scandalizzare’.

Pier Paolo Pasolini, rimosso dalla sinistra dei diritti no limit, è stato l’ultimo, tragico, profeta scandaloso. «L’Italia – denuncia Cantaro – è il paese … popolato, a destra e a sinistra, da intellettuali insani, servitori dei potenti di turno, servitori di sé stessi, cortigiani. Ma è anche il Paese che forse più di ogni altro ha conosciuto nella sua storia uomini e intellettuali sani. Liberi dai potenti, esuli fuori dalla Patria (Dante), esuli in Patria (Leopardi, Gramsci, Pasolini), servitori dell’emancipazione degli umili. Con un autentico obiettivo etico-politico: fare degli ultimi e dei penultimi un popolo. Intellettuali sanamente partigiani».

Papa Francesco è stato tra i pochi ad aver rappresentato l’amore per il popolo come l’antidoto alla molecolare guerra civile dei nostri giorni. Mario Tronti poco prima di lasciarci scrive: «La tradizione è popolo, e il popolo è tradizione. Se non ti radichi lì dentro, non c’è nessuna possibilità di cambiare il fondo delle cose». È così, amata sinistra.

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