Joseph S. Nye Jr, politologo di Harvard scomparso venerdì 9 maggio, consulente di governi democratici e talvolta membro di essi, ha scelto un ottimo nome quando ha intitolato le sue memorie Una vita nel secolo americano (2024). È un classico esempio della porosità del confine tra pubblico e privato nella governance americana, Nye ha fatto avanti e indietro tra Harvard e Washington durante quei decenni del secondo dopoguerra che hanno visto i punti più alti del prestigio e dell'influenza americani nel mondo.

A fronte di qualsiasi contraccolpo autoinflitto allo status della sua nazione, Nye ha sempre insistito sul fatto che essa avrebbe sempre dimostrato la capacità di recupero necessaria. Anche se ufficialmente era un esperto di difesa e di intelligence, è inventore della fortunata formula del soft power che sarà sempre ricordato.

Cosa c'era di così rivoluzionario nel linguaggio usato da Nye quando, nel 1990, lanciò la sua idea in Bound to Lead. The Changing Nature of American Power? La definizione originaria descrive «la capacità di stabilire le preferenze [degli altri] tende a essere associata a risorse di potere intangibili come la cultura, l'ideologia e le istituzioni. Questa dimensione può essere considerata come soft power, in contrasto con l'hard command power solitamente associato a risorse tangibili come la forza militare ed economica».

Contro il declino

All'epoca, Nye utilizzò la sua formula per contrastare un'impressione diffusa di declino americano, senza prevedere però la fine della Guerra fredda. Solo in seguito arrivò ad affermare che il crollo spontaneo dell'Unione sovietica era in parte dovuto all'attrattiva dello stile di vita occidentale, e quindi rappresentava in parte una conferma del suo approccio di soft power.

Ma per altri versi Nye fu preveggente anche nel 1990. Insisteva sul fatto che la natura del "potere" nel sistema internazionale stava cambiando, assumendo nuove dimensioni, diventando più diffusa, eliminando i confini tra attori statali e non statali. Nye parlava di «interdipendenza transnazionale» che la rivoluzione dell'informazione di allora – prima di Internet – stava già producendo. Elencava altri fattori che avrebbero condizionato la futura evoluzione del sistema internazionale: le epidemie sanitarie (pensava all'Aids), il cambiamento climatico, il traffico di droga, il terrorismo. Nel corso dei decenni successivi avrebbe sviluppato e adattato la sua concezione di soft power, fino ad arrivare, nel 2004, a una definizione completa in Soft Power. The Means to Success in World Politics:

«Il soft power di un paese si basa principalmente su tre risorse: la sua cultura (nei luoghi in cui è attraente per gli altri), i suoi valori politici (quando li rispetta in patria e all'estero) e le sue politiche estere (quando sono viste come legittime e dotate di autorità morale)».

Questione di coerenza

Bisogna ammirare la coerenza di Nye nel corso dei decenni. Ed è difficile non essere d'accordo con quanto ha affermato in un saggio del marzo 2025 sul Financial Times circa l'effetto distruttivo dei metodi dell'amministrazione Trump sul soft power statunitense. Ma c'è una spinta moralistica e funzionale nell'intera visione di Nye che indebolisce la sua argomentazione, perché è così chiaramente americana e immaginata per scopi tutti americani. Nye voleva condizionare gli "esiti", cioè i risultati utili per la politica estera statunitense come convenzionalmente definita (cioè prima di Trump). La costruzione consensuale di alleanze geopolitiche formali era la sua ambizione principale.

Eppure la formula di base del soft power sembra essere diventata un modo di dire comune negli affari internazionali di tutti i giorni. Le Monde l'ha usata per celebrare il successo di Parigi nella ricostruzione di Notre Dame. I canadesi vi hanno fatto riferimento per i loro successi nell'hockey su ghiaccio, gli inglesi per i recenti successi di pubbliche relazioni della loro monarchia e lo stesso monarca quando ha ospitato i protagonisti della gastronomia italiana per una cena italiana nella sua residenza di campagna.

Il governo Meloni attribuisce infatti grande importanza all'aumento del prestigio acquisito dal successo globale della cultura alimentare del paese. Un recente documento di Kiev su Soft Power e sicurezza sottolinea che a livello globale la battaglia per i cuori e le menti è, a lungo termine per l'Ucraina più importante quanto ciò che accade oggi sul campo di battaglia. E ovviamente la formula è stata molto utilizzata anche  quando l'attuale amministrazione statunitense ha deciso di cancellare l'80 per cento del programma nazionale di aiuti all'estero di lunga data.

Lo strumento migliore 

I governi e le altre istituzioni – come le chiese – scelgono oggi il soft power nella convinzione che le loro nazioni, i loro prodotti, le loro personalità, e soprattutto la loro cultura, siano dotati di un carisma proprio che può essere utilizzato per generare prestigio, attenzione e rispetto nel mondo. Ma se si prende la formula di Nye e la si applica a tutti gli strumenti che gli stati nazionali (e altri) applicano per collegare il potere all'influenza, emerge un quadro diverso.

Non è infatti la forza di attrazione, ma la forza dell'esempio a emergere come il più duraturo e impattante di questi strumenti, in particolare l'esempio dell'incontro di una società con i principali modelli di modernità in un dato momento e il successo dei suoi sforzi per bilanciare tradizione e modernità. Le molteplici dimensioni del patrimonio gastronomico italiano sono un classico esempio di questo tipo di risultato.

Il soft power non è un concetto o una teoria completamente sviluppata. Non è in grado di spiegare l'interazione tra hard e soft in molte aree della scienza, della tecnologia e del diritto, né il rapporto tra l'idea che uno stato ha del suo soft power e le declinazioni prodotte spontaneamente sul suo territorio dai popoli, dalle culture, dalle imprese, dalle  istituzioni private, dai creativi e così via. Solo raramente si fa riferimento alle dimensioni economiche dell'influenza. Dobbiamo continuare però a prendere sul serio l'idea di soft power perché la competizione per il prestigio e la leadership si svolge intorno a noi, a tanti livelli, cogliendo la presenza del soft power in forme sempre più esplicite e prominenti.

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