La vicenda di Ikram Nazih, la ragazza italo-marocchina condannata a tre anni di carcere al suo rientro in Marocco per un post giudicato blasfemo, pubblicato due anni prima e rimasto online non più di 15 minuti, e sulla quale Domani sta portando avanti un’importante campagna di sensibilizzazione e informazione, ci può aiutare a conoscere meglio un contesto repressivo assai più ampio, praticamente globale.

Oltre che in Marocco, in almeno altri 80 stati sono in vigore leggi che criminalizzano la blasfemia, definita nei codici penali come reato di “offesa alla religione”, “offesa ai sentimenti religiosi”, “offesa alle figure sacre della religione” e in altri modi ancora.

Se nella maggior parte di questi stati è applicata la shari’a o l’Islam è la principale o esclusiva religione riconosciuta, non mancano eccezioni rilevanti: l’India e la Russia su tutte, dove le religioni dominanti influenzano le leggi e sono in strettissimo rapporto con poteri autoritari. A proposito della Russia, basti ricordare la vicenda del gruppo punk femminista Pussy Riot, tre artiste del quale nel 2012 vennero condannate a due anni di carcere per “teppismo motivato da odio religioso”, per aver messo in scena nella cattedrale di Cristo Re a Mosca uno spettacolo ritenuto blasfemo nei confronti della chiesa ortodossa.

Per inciso, in Italia la blasfemia non è più un reato solo dal 1999: da allora è considerato un illecito amministrativo, punito con una sanzione che può superare i 300 euro. Persino nel mondo del calcio, non è raro che un calciatore che bestemmi sul campo di gioco sia punito con una giornata di squalifica: è quanto è successo nell’ultimo campionato di serie A, tra gli altri, al calciatore della Roma Brian Cristante e a quello della Lazio Manuel Lazzari.

In almeno quattro stati – Mauritania, Brunei, Iran e Pakistan – e in quelli settentrionali della Nigeria, per il reato di blasfemia è prevista addirittura la pena di morte.

Casi celebri

Quello del Pakistan, dove la sezione 298-C del codice penale è applicata decine di volte all’anno senza che per fortuna vengano eseguite condanne a morte, è il caso più evidente da cui arriva la storia più conosciuta al mondo: quella di Aasia Bibi, la donna di religione cristiana che per quasi 10 anni ha rischiato che venisse eseguita la condanna a morte, infine annullata.

Le organizzazioni per i diritti umani denunciano da decenni come le norme contro la blasfemia vigenti in Pakistan siano utilizzate per vendetta personale, per dispute private, sulla base di accuse del tutto inventate così come per punire, oltre ai cristiani, anche gruppi islamici considerati eterodossi, come la comunità ahmadiyya.

Almeno altri due casi nel mondo sono diventati noti a seguito dell’impegno delle organizzazioni per i diritti umani.

Il primo è quello di Mohammed Mkhaïtir, un attivista della Mauritania arrestato all’inizio del 2014 e condannato a morte per aver pubblicato su Facebook un post giudicato blasfemo, nel quale aveva criticato l’uso della religione per giustificare pratiche discriminatorie contro la casta cui apparteneva. La condanna è stata annullata solo alla fine del 2017.

Rischia invece ancora la pena di morte, anche se per il momento una prima condanna è stata annullata, il giovane cantante nigeriano Yahya Sharif Aminu, giudicato blasfemo contro il profeta dell’Islam per estratti di suoi brani che aveva fatto circolare via WhatsApp. In ciascuno di questi casi, ed è comunque una costante nei tre stati menzionati, vi è stata una forte pressione nei confronti delle autorità affinché emettessero condanne esemplari: Yahya Sharif Aminu è stato arrestato dopo che una folla di facinorosi aveva assaltato la sua abitazione, Mohammed Mkhaïtir ha continuato a ricevere minacce da parte di gruppi di fanatici pronti ad eseguire loro stessi la condanna a morte annullata. In Pakistan, coloro che si opponevano alle leggi sulla blasfemia (avvocati e persino ministri) sono stati assassinati e la stessa Aasia Bibi è stata costretta all’esilio.

Dunque, quello di Ikram Nazih, lungi dall’essere isolato, è piuttosto l’ennesimo grave caso di uso sproporzionato delle norme contro la blasfemia. Ci ritroviamo la tendenza dei governi a rafforzare il consenso utilizzando norme a protezione della religione di stato e, soprattutto, la conferma che i profili social sono sotto costante monitoraggio: quando non fa prima qualche zelante credente che segnala, ci arrivano i sempre più numerosi guardiani e spioni della rete.

Nelle vicende delle Pussy Riot e di Mohammed Mkhaïtir le leggi contro la blasfemia sono state usate per intenti evidentemente politici; in quella di Aasia Bibi e in decine analoghe alla sua, per perseguitare una minoranza religiosa; in quelle di Yahya Sharif Aminu e di Ikram Nazih per punire, ricorso a un verso di Franco Battiato, “un po’ di leggerezza e di stupidità”.

In ogni caso, quando un governo criminalizza l’offesa alla religione non è mai un buon segno.

Le storie che ho raccontato si sono concluse con assoluzioni o mitigazioni delle condanne. C’è da sperare che, anche nel caso di Ikram, alla spietatezza del giudice di primo grado seguano la clemenza e la saggezza del giudice d’appello.

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