Lo scorso 25 settembre si sono battuti due record assoluti in tema di astensionismo. Si è infatti raggiunto il più basso livello di partecipazione dal 1946 ad oggi (63,79 per cento), con uno scostamento negativo di 9 punti percentuali rispetto alle precedenti elezioni, un differenziale anch’esso senza precedenti.

L’Italia é così passata dall’essere tra nazioni europee con il più alto tasso di partecipazione elettorale alle parti basse della classifica continentale.

Ma siccome i seggi in parlamento sono assegnati sulla base dei voti validi e delle relative percentuali, l’attenzione sul fenomeno della crescita dell’astensionismo scema sempre molto velocemente.

Certamente se le analisi del voto si fondassero sull’andamento percentuale in relazione agli elettori (cittadini aventi diritto al voto) e non ai voti validi espressi, si avrebbe maggiore consapevolezza del crescente malfunzionamento della democrazia italiana sul lato della rappresentanza.

Le vere percentuali

Fatto 100 gli elettori, infatti, il centrodestra, grande vincitore di queste elezioni, passa dal 26,13 per cento del 2018 al 26,73 per cento del 2022, con un incremento di meno di un punto percentuale (+ 0,6 per cento).

Il grande perdente, il centrosinistra, in realtà arretra solo dello 0,1 per cento (16,03 per cento nel 2022 contro il 16,14 per cento di quattro anni fa).

Dal canto suo il M5s crolla dal 23,08 per cento del 2018 al 9,42 per cento del 2022, mentre tutti gli altri crescono dal 5,27 per cento all’8,85 per cento di quest’anno.

Con questa modalità di rappresentazione del comportamento degli elettori emerge con chiarezza che il vero vincitore delle elezioni dello scorso 25 settembre è stato il «partito del non voto», largamente al primo posto con il 36,21 per cento, in netta crescita rispetto al 27,06 per cento del 2018.

In lieve aumento, infine, anche le schede bianche e nulle che si attestano al 2,85 per cento (2,33 per cento nel 2018).

Ovviamente, come i partiti, anche per l’universo degli astensionisti esiste uno «zoccolo duro» (stimabile attorno al 20 per cento) di elettori che non sentono più alcuna attrazione verso le urne, mentre è in crescita quello che viene definito il fenomeno dell’ «elettore intermittente» che da una elezione (politiche, regionali, comunali) all’altra può votare come invece non recarsi ai seggi.

A dare una mano al dimagrimento degli elettori c’è anche il calo demografico che ha ridotto in quattro anni di 483.394 il numero degli aventi diritto al voto.

Elettori intermittenti

Grazie all’analisi dei flussi, realizzata con diverse modalità dalle società specializzate nei sondaggi, è possibile indagare come si sono comportati quest’anno gli intermittenti.

Il dato di partenza sono i 12.582.000 non votanti del 2018 e i 16.666.000 astenuti del 2022.

L’aumento è stato dunque pari a 4.084.000 (non) elettori, quasi un terzo in più.

Tra gli astenuti delle ultime elezioni politiche, si stima che circa 3.150.000 siano tornati a esprimere una preferenza sulla scheda elettorale, mentre i restanti 9.432.000 (pari al 20,5 per cento) abbiamo continuato a non votare, confermando empiricamente la stima citata in precedenza.

Hanno, invece, disertato le urne circa 7.200.000 votanti del 2018 (di cui oltre la metà in fuga dal Movimento 5 Stelle).

Ai 9.432.000 astensionisti cronici si sono aggiunti i movimenti in uscita (3.150.000 votanti) e in entrata (7.150.00 non votanti) degli «elettori intermittenti» del 2022 pari al 22 per cento del totale del 2018, confermando una maggiore propensione di quest’ultimi alla partecipazione attiva nelle politiche rispetto alle altre consultazioni.

Detto in altri termini: 12.582.000 (astenuti 2018) meno 3.150.000 (astenuti 2018 pentiti) più 7.200.000 (nuovi astenuti) uguale 16.632.000 di non votanti, una stima assai vicina al dato reale di 16.666.000.

La partecipazione

Tornando ai tassi di partecipazione elettorale, nel 2022 soltanto tre regioni hanno superato il 70 per cento (Emilia Romagna, 75,2 per cento; Veneto 70,2 per cento e Lombardia 70,1 per cento), mentre erano 15 nel 2018 e 14 nel 2013, di cui tre oltre l’80 per cento.

In coda alla graduatoria dei votanti quest’anno ritroviamo la Calabria con il 50,8 per cento e altre sei regioni sotto il livello del 60 per cento.

Dieci anni fa, nel 2013, la peggiore performance era stata sempre quella calabrese con il 63,2 per cento, ma non c’era alcuna regione sotto il 60 per cento e complessivamente solo 6 regioni sotto il 70 per cento.

Secondo le analisi di Swg, infine, sono superiori alla media nazionale del 36 per cento di astensionismo, le donne (41 per cento), gli operai (45 per cento), il ceto medio (40 per cento) e chi ha difficoltà economiche (46 per cento), mentre sono stati più virtuosi i lavoratori autonomi (25 per cento) e la classe d’età dei 35-54 anni (32 per cento).

Sostanzialmente in linea invece i giovani dai 18 ai 34 anni (37 per cento) e i pensionati (35 per cento).

Questi ultimi dati parrebbero indicare l’affermarsi di un «astensionismo di classe», ovvero un calo della partecipazione al crescere delle difficoltà economiche, confermato anche dalla differente intensità di voto tra la periferia e il centro delle grandi città, a vantaggio di quest’ultimo.

I numeri dell’astensionismo rappresentano certamente una spia di un malessere sociale profondo e di una sfiducia nei confronti della politica e della istituzioni che non può e non deve essere sottovalutata.

Dati che meriterebbero maggiore attenzione anche nella riflessione critica e autocritica della sinistra e del Pd in particolare, perché proprio qui, nel magma della protesta e dell’ insofferenza, potrebbe nascondersi un «giacimento nascosto» di potenziali elettori da cui ripartire per riconquistare consensi e legami sociali perduti.

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