Giorgia Meloni ha dato indicazione ufficiale di essere chiamata da tutto il suo governo e da tutti i dipendenti dei ministeri “signor presidente del Consiglio”. Noi, qui a Domani, continueremo a chiamarla “la” presidente del Consiglio. Per due ragioni: la prima è che a casa nostra le regole le facciamo noi e gli editti di palazzo Chigi non valgono.

La seconda è che, sul nostro giornale, abbiamo sempre discusso in modo approfondito le questioni sul rapporto tra lingua e uguaglianza, con tutti i punti di vista in campo. Dai paladini della schwa ai suoi avversari più acerrimi.

La mia sintesi di questo dibattito è la seguente. Chi si illude di plasmare la realtà soltanto con la lingua, è un illuso. Ma chi sostiene che la lingua è neutrale e non ha alcuna relazione con la sostanza delle cose è un ingenuo o è in malafede.

Nel caso specifico, la causa dell’uguaglianza (tra i generi, tra le classi sociali, tra le persone in generale) non fa grandi passi avanti imponendo “la” presidente del Consiglio, la “presidenta”, la “presidentessa” o, come ha detto Meloni con disprezzo, “la capatrena”.

Un articolo femminile davanti a una carica espressa da un termine peraltro neutro nel genere è soltanto correttezza grammaticale, senza particolari implicazioni valoriali. “La” presidente del Consiglio.

Ma di sicuro scegliere di farsi chiamare “il” presidente del Consiglio ha un messaggio politico forte, speculare a quello che viene mandato con l’uso della schwa: affermare la supremazia del maschile.

Non nel senso che Giorgia Meloni sogni di essere un uomo, ma nell’accezione di un riconoscimento del potere tradizionale, gerarchico, verticale e immutabile. Quello che – nei dibattiti sul genere – viene riassunto nel concetto di “patriarcato”.

Con la scelta di essere “il” presidente del Consiglio, Giorgia Meloni compie tutto sommato una operazione di chiarezza e trasparenza: esplicita di essere stata cooptata dal potere italiano, di averlo ottenuto per conservarlo e passarlo ai suoi successori senza aver turbato nulla dell’assetto iniziale.

Meloni non ha conquistato palazzo Chigi per cambiare il sistema, per ridiscutere le gerarchie di potere, ma per metterle al riparo dalle spinte al cambiamento che arrivano, potenti, dalla società ma si scontrano contro l’immobilismo della politica.

Noi, a Domani, continueremo dunque a chiamarla “la” presidente perché invece a quel cambiamento noi continuiamo a credere e lo raccontiamo ogni giorno nei nostri articoli.

Pur consapevoli che la grammatica non cambia il mondo da sola, non lasceremo che sia un articolo a sancire la vittoria della conservazione.  

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