Pagonda, avventuroso giovanotto di Tebe, conosceva bene la vicina città di Platea, che distava solo 70 stadi, circa 15 dei nostri moderni chilometri, che pure è come tante una parola greca. «Ci andavo spesso a cavallo per amore di una vedova ricca, proprietaria di quel granaio, molto generosa verso la mia virtù maschile».

Così quando i plateesi gli stanno dando la caccia, nell’ambito di uno dei feroci episodi bellici che costellano la storia della Grecia antica, Pagonda corre a casa della ricca vedova per chiederle aiuto. «Bussai alla porta con quello che avevo, pugni, testa, scudo, chiamando il suo nome in modo che non mi facesse decapitare da un servo».

La vedova gli apre soccorrevole, provocando così una delle più solenni (anti)dichiarazioni d’amore della letteratura classica e moderna: «Sugli dèi protettori di Tebe dalle sette porte, inespugnabile e gloriosa, se alla luce della lampada avessi visto la ninfa più splendente del corteo di Artemide, mi sarebbe parsa meno bella della mia amata che pure richiedeva grande oscurità, durante gli incontri di Eros, per smorzare l’antinomia delle fattezze».

Il comico e il tragico sono i due ritmi sempre intrecciati della cultura classica e Gianfrancesco Turano li mescola con sapienza nel suo romanzo Polemos (Giunti), una prova di virtuosismo unica nel suo genere. Mai in duemila anni uno scrittore si era cimentato nella scrittura di un romanzo d’invenzione ambientato nell’antica Grecia.

Non è infatti il racconto romanzato di grandi personaggi storici, genere abbastanza arato in letteratura di pari passo con il cosiddetto “peplum”, il genere cinematografico dei film ambientati in Grecia o nella Roma imperiale.

L’azione di Polemos si svolge dal 430 al 426 a.C. e ha sullo sfondo la guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta (431-404 a.C.), che alla fine sarà vinta dalla città della dittatura contro la culla della democrazia.

Ma di Pericle, il leader dell’età dell’oro di Atene che termina proprio con la sconfitta militare di fine secolo, si parla solo di sfuggita, giusto per rilevare che nel 429 è morto di peste (preceduto di poco da Fidia, scultore «di regime») scatenando i commenti più variopinti, e quasi tutti irridenti, tra gli ateniesi piegati dal morbo.

Tre personaggi

Polemos racconta i destini incrociati di tre personaggi. Mirrina è un’adolescente ateniese (quindi già in età da marito) finita prigioniera a Sparta e animata da due sentimenti forti: il desiderio di vendicare l’uccisione di suo padre Nicobulo, trucidato dagli uomini del re di Sparta Archidamo, e l’amore diviso tra la giovane ilota Briseide (anch’essa reduce dallo scannamento del padre) e il giovane guerriero spartano Procle, sul quale però deve anche vendicare l’uccisione di Nicobulo e pure, per dirla tutta, lo sgarro di averle sottratto Briseide.

Procle, l’avete già capito, è il secondo protagonista (parola greca che implicherebbe che ce ne sia solo uno in ogni storia, ma gli italiani godono del privilegio di una lingua approssimativa, fatta di sfumature, e per sapere che cos’è una lingua sostenuta da una logica matematica devono studiare il greco al liceo classico).

Il terzo personaggio è Milone, scrittore di commedie comiche proveniente da Reggio (Rhegion) e quindi per i greci “italiota”, quarantenne (quindi vecchio) zoppo e caratterizzato da appetiti (omo)sessuali inarrestabili.

I greci di Polemos mangiano, amano, si inseguono, scappano, si scannano, rubano, si occupano di politica e coltivano ambizioni. Milone sogna di vincere gli agoni drammatici delle Grandi Dionisie, ma quando legge la Medea di Euripide, che aveva appena ottenuto la nomination (ma non vincerà, sarà battuto insieme a Sofocle dal figlio raccomandato del defunto Eschilo, tale Euforione), si scoraggia: «Mi è stato chiaro quanto persino un modesto drammaturgo, circondato da fama negli ambienti bassi del popolo, sia migliore di me». Learco di Euristene, ateniese corrottissimo e ricco, sogna di vincere la gara più prestigiosa delle Olimpiadi, quella delle quadrighe.

«Quattro anni prima aveva trionfato alle Grandi Panatenee nella gara delle quadrighe. L’anfora del vincitore, magnifica, dipinta a figure nere, piena dell’olio sacro di Atena, era esposta nella sala grande decorata dal famoso pittore Agatarco». La vittoria alle Olimpiadi propizia un vitalizio della Repubblica e anche per questo gli ateniesi ricchi, come le contrade senesi con il Palio, si contendono i migliori cavalli da portare a Olimpia. Dove le gare si svolgono tra tutte le città ateniesi anche se in guerra, grazie ad apposita tregua sacra. Per Learco l’uomo chiave è Pagonda, grande esperto di cavalli come tutti i tebani.

Lo manda a Olimpia dove gode dell’ospitalità dell’organizzazione, gli altri fanno la fame: «Salvo Pagonda, che mangiava e dormiva negli alloggi riservati agli atleti, vivevamo dell’ospitalità degli altri greci, sistemati all’aperto presso le rive dell’Alfeo. Un villaggio di tende era sorto alla base del monte Crono, a settentrione dello stadio. Attorno ai templi si allestivano empori per cuocere cibo o vendere offerte votive, fra musica e danze, in un’attesa che cresceva con l’aumentare della folla».

I greci si osservano, si invidiano e, quando non si amano, si odiano. L’aspirante condottiero spartano, Procle, riflette sulla natura orrenda degli ateniesi, che sotto i suoi occhi impalano un nobile ufficiale di marina spartano: «Questo aveva fatto un greco libero a un greco libero, senza timore del castigo divino, contro la virtù del guerriero. Questo erano gli ateniesi: ornamento di parole e ferocia. Ciò che a Sparta era furto chiamavano tributo. Quello che a Sparta è dispotismo chiamavano alleanza. L’Ellade intera si stava ribellando e i tiranni si erano finalmente tolti la maschera che usavano negli spettacoli teatrali. Erano persiani travestiti che pretendevano ossequio dagli altri greci. Avevano messo in ginocchio una città dopo l’altra. Un’isola dopo l’altra si era prosternata davanti a loro finché era rimasta solo Sparta e adesso pretendevano sottomissione anche da lei, sentinella della libertà».

Il difetto degli ateniesi è di non essere spartani né di nome né di fatto. Sono ricchi e amano il lusso, hanno costruito lo splendore dell’Acropoli e si godono la vita, soprattutto i ricchi ovviamente, ma sembra che essere povero ad Atene sia meglio che esserlo a Sparta.

Procle è esterrefatto: «Parlare era tipico degli ateniesi. Molti di loro ammiravano Sparta. Nessun lacedemone ammirava Atene, dove il popolo viveva nei lussi e trascorreva le giornate a passeggio per l’Acropoli in chiacchiere che chiamavano filosofia, musica e in altri ozi nocivi. Pensavano soltanto ad arricchirsi e questa gara indegna generava l’odio politico, le divisioni, l’egoismo. Gli diceva suo padre che essere storpio ed essere ricco sono morbi simili ma uno storpio può combattere, un ricco scappa».

Senza mai distrarsi dalla ricerca di giovanotti prestanti da portarsi a letto (perché nella Grecia antica c’è una libertà sessuale che il nostro occidente sviluppato, figlio degenere di quella cultura, nemmeno si sogna), il comico Milone è rattristato dal clima bellico e dai suoi imperativi sul mercato drammaturgico: «Vorrei parlare di voi, delle vostre giornate, dei vostri amori. Invece mi chiedono politica e dèi, politica e guerra. Ma io non mi occupo di politica da quando in Italia la politica mi ha respinto con voto unanime. Ho fatto in tempo ad assistere ai disastri di chi mi ha sostituito. Non ho la prova che al loro posto mi sarei comportato con maggiore successo. Tuttavia in qualcuno dei suoi meandri la mia vanità si ritiene superiore a quella massa di aristocratici, contadini, commercianti, demiurghi, che sta trascinando l’Ellade verso il disastro insieme ai suoi insuperabili poeti drammatici e lirici, scultori pittori architetti. Se riuscissi a parlare di voi e di quanto state soffrendo per la guerra, la guerra finirebbe. Polemos (il dio della guerra, ndr) cadrebbe a pezzi e non ne resterebbe la polvere».

Le famose lauree inutili

È probabile che per apprezzare pienamente Polemos sia necessario aver fatto il liceo classico, sicuramente è consigliabile, perché chi, anche decenni fa, si è rotto la testa su versioni dal greco complicate come equazioni di terzo grado, ottiene dal romanzo di Turano un meritato risarcimento.

Ma anche ragazze e ragazzi che il classico lo stanno facendo adesso scopriranno con soddisfazione una certa familiarità con le vicende narrate e capiranno che le cose che stanno studiando sono vere e non astratte, che il greco non è una lingua morta ma la lingua di donne e uomini vivi che, per un inspiegabile scherzo della storia, hanno scavato a mani nude le fondamenta della nostra civiltà, bella o brutta che ci sembri.

Eva Cantarella, massima autorità accademica in materia, riconosce a Turano di aver descritto la Grecia antica «con una competenza, con una ricchezza e con una precisione di dettagli che non possono non sorprendere il lettore», sottintendendo che lascia increduli tanta accuratezza in un signore che di mestiere fa, da sempre, solo il giornalista.

Ma Turano, come molti giornalisti della sua generazione, è un intellettuale (nel caso specifico laureato in greco antico, allievo di Dario Del Corno) spinto al giornalismo dal bisogno, in un’epoca (che ai giovani aspiranti reporter di oggi, eterne promesse sfruttate e sottopagate, può sembrare incredibile) in cui il mondo dei giornali era molto più generoso, accogliente e lungimirante dell’accademia con i giovani talenti. «A dimostrazione», chiosa Cantarella, «di come una buona formazione classica sia importante quale che sia la scelta professionale di chi ha avuto la fortuna di riceverla». Le famose lauree inutili.

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