L’amministrazione Biden ha adottato una politica economica diversa dal passato (come su questo giornale avevamo sperato). Fondata sugli investimenti, in patria, e sulla riforma del sistema finanziario mondiale. È una politica keynesiana, di tipo nuovo perché non più solo nazionale, ma globale.

Sul piano interno, Biden ha annunciato un piano di 3mila miliardi di dollari per le infrastrutture, l’ambiente e il sociale; cui si aggiungono altri 1.900 miliardi per il sostegno ai redditi colpiti dalla crisi. Si tratta di cifre molto maggiori di quelle messe in campo dall’Europa: si pensi che il Recovery plan è di appena 750 miliardi di euro. In rapporto al Pil, il piano di Biden da tremila miliardi, comparabile negli obiettivi al nostro Recovery, vale il doppio: 13,6 per cento contro 6,7 per cento.

Biden intende finanziare questa spesa anche con un aumento delle tasse. E pure questo è un dato su cui riflettere. Per farlo, qui c’è l’altra novità fondamentale, propone una minimum tax globale per le imprese pari al 21 per cento. Il doppio di quella che hanno oggi gli Usa (10,5 per cento). Si tratta di una proposta di enorme importanza, che rompe con i dogmi della globalizzazione neo-liberale, in cui per la mancanza di coordinamento fiscale le politiche interne di welfare e di investimenti erano quasi inefficaci (se non controproducenti, perché le imprese si trasferivano dove pagavano meno tasse).

Siamo quindi di fronte a un cambio radicale di paradigma, che perdipiù viene dalla principale potenza economica mondiale. Quanto di questo abbiamo consapevolezza in Europa?

Restare indietro

La consapevolezza deve essere di due tipi. Primo, se gli Stati Uniti investono molto più di noi sulla ripresa, l’Europa dovrà aspettarsi di rimanere indietro nella competizione globale. Ancora più indietro. Detta altrimenti: il Recovery plan, pure importante e che è stato (a suo tempo) una svolta, oggi rischia di essere già vecchio. Troppo poco. Una misura pensata quando si credeva che la pandemia sarebbe durata meno e quando ancora negli Stati Uniti c’era Donald Trump. L’Europa dovrebbe quindi non solo mantenere il Recovery plan nel tempo, ma ampliarlo. Ci riuscirà? In fondo, Mario Draghi, quando ha dichiarato che il debito si ripagherà con la crescita e con gli investimenti, ha adottato anche lui un’impostazione keynesiana. Una figura del suo prestigio, a capo dell’Italia (cioè il grande malato d’Europa che da sempre scoraggia i nordici dal condividere il debito), potrebbe essere un’occasione straordinaria per spingere su questa strada. Ma questa oggi è la sfida.

La tassazione minima

La seconda consapevolezza riguarda l’assetto fiscale e finanziario dell’Eurozona. La tassazione minima proposta da Biden mette in difficoltà anche alcuni paesi dell’Unione, che hanno tassazioni più basse di quelle proposte da Biden (in Irlanda, ad esempio, le tasse sulle imprese sono al 12,5 per cento).

Questo aspetto peraltro è solo una parte del più ampio problema della competizione fiscale al ribasso in Europa, del fiscal dumping. Forse vale la pena cogliere quest’occasione per una riforma complessiva della tassazione europea, per porre davvero le basi di un sistema fiscale comune (e avrà un impatto significativo anche sulla riforma fiscale che si sta discutendo in Italia).

Le due sfide devono andare insieme: più investimenti, nazionali o europei, sostenuti da un fisco comune. Ci vuole più coraggio. Guardiamo a quello che succede nel mondo: sta cambiando in fretta, a cominciare dall’America. Se l’Europa vuole continuare a essere competitiva deve comprenderlo rapidamente: e procedere sulla strada di maggiore unità e di più investimenti.

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