La questione salariale è rimasta sottotraccia per moltissimi anni. La palla veniva sempre mandata fuori campo perché la precedenza spettava a flessibilità, concorrenza, competitività, produttività, globalizzazione, mercato, eccetera, eccetera.

La condizione dei lavoratori non era un tema all’ordine del giorno: neppure i sindacati sono riusciti a metterla in agenda. Basterebbe pensare a questo per rendersi conto dell’egemonia culturale pro-market e anti-labour esercitata da più di vent’anni nella versione sua hard dai populisti forzaleghisti o in quella edulcorata dai governi tecnici e turborenziani.

Lavorare ed essere poveri

Pur con molta fatica ora si sta riaffacciando sulla scena politica. Il tema non riguarda però solo il versante economico e sociale. Su questo piano la condizione di vita di molti lavoratori italiani può essere assimilata a quella dei cosiddetti working poor, persone che pur avendo una occupazione non ricevono una retribuzione che gli permetta una vita dignitosa.

Solo chi vive sdraiato nei suoi comodi divani di design e non esce dalla sua cerchia dorata di conoscenze bennate ignora quali siano le condizioni di vita di milioni di cittadini, per non parlare degli immigrati che nel mezzogiorno lavorano sotto un regime semi-schiavistico.

Queste condizioni di vita sono legate a retribuzioni vergognose per lavori precari, instabili, occasionali, retribuiti parte in nero o con accordi criminali per cui una parte della busta paga va restituita al cosiddetto datore di lavoro.

Condizioni disdicevoli

Con una faccia tosta degna delle migliori commedie all’italiana i gestori di attività turistiche si stanno lamentando perché non trovano nessuno che lavori 12 ore al giorno per sette giorni su sette a 5 euro l’ora. Questo è quanto viene offerto loro.

Il reddito di cittadinanza va benedetto proprio perché ha portato alla superficie lo scandalo delle retribuzioni da fame e dello sfruttamento più bieco. Questo ai livelli più bassi dell’offerta di lavoro.

Ma anche ai livelli alti, per persone con elevate qualifiche, risuona lo stesso ritornello.

Per quale motivo l’Italia si sta dissanguando delle sue energie più brillanti se non perché in altri paesi le retribuzioni e le condizioni di lavoro, ivi compresi i rapporti gerarchici, sono molto migliori? Come mai la prole dei suddetti possessori di divani è in gran parte a lavorare all’estero?

Senza più freni

La triste realtà è che il processo di modernizzazione del nostro paese si è arrestato all’inizio degli anni Novanta. Il crollo dei partiti tradizionali di governo ha disperso quel poco di attenzione per gli interessi generali che comunque essi, pur con tutti loro limiti e difetti, avevano e che consentiva di tenere in carreggiata l’Italia.

Nel momento in cui è venuto meno quel minimo di cintura protettiva agli interessi particolari, la borghesia compradora ha trovato nella nuova destra a tradizione berlusconiana un’interprete fedele delle sue pulsioni proprietarie. E non ha più avuto freni.

Ha pensato di poter tornare allo sfruttamento della forza lavoro da anni Cinquanta, abbandonando totalmente, tra l’altro, gli investimenti in ricerca e sviluppo. E da vent’anni siamo costantemente regrediti.

Cittadini in cerca di ascolto

L’impoverimento dell’Italia non investe solo il piano socioeconomico. Inquina anche quello democratico. Nel suo punto più sensibile: il diritto di voto. Una imponente messe di ricerche accademiche dimostra senz’ombra di dubbio che l’astensionismo cresce esponenzialmente con il crescere della povertà. Chi è in condizioni di grave disagio, vista l’assenza di grandi strutture di sostegno cultural-politico fornito un tempo dai partiti, si ritrova isolato, alienato nei confronti della politica. E così volta le spalle alla polìs.

A causa della loro assenza i rappresentanti sono scelti dalla parte più acculturata e agiata sella società. È come se l’orologio della storia fosse tornato all’Ottocento, a prima del suffragio universale. E non è un caso che molte delle politiche, anche dei partiti di sinistra, non riflettano in primo luogo le domande dei sotto-privilegiati. I quali non hanno più voce. Oppure urlano la loro rabbia a tutto vantaggio della demagogia populista. La questione salariale, quindi, è anche una questione fondamentale della democrazia. Si tratta di ricreare le condizioni della piena cittadinanza per milioni di persone.

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