Questo non è il chicken game (gioco del pollo), quello tradotto al cinema nella folle gara di Gioventù bruciata quando James Dean e il rivale si sfidano a chi frena per ultimo evitando il burrone. Stupida “prova di coraggio” dove perde chi si arresta per primo. Se nessuno dei due si ferma muoiono entrambi. Qui la differenza è in un dettaglio che tale non è: la “folle sfida” l’ha lanciata uno dei due, la Russia di Vladimir Putin, e non si tratta di una gara. No, è una sfilata di corpi abbandonati, fosse comuni, bambini morti e stupri, in una spirale di guerra combattuta (fin qui) con armi convenzionali.

“Sì ma…”, o anche “la guerra è iniziata otto anni fa…”, e pure “i nazisti del battaglione Azov hanno commesso crimini altrettanto disumani…”. Certo, ma il punto è che nulla può ridurre portata e senso dell’evento avviato il 24 febbraio.

La Russia ha invaso militarmente l’Ucraina, da quasi sessanta giorni ne bombarda le città, distrugge edifici, sventra palazzi e villaggi, costringe milioni di famiglie a sfollare e altri milioni a fuggire dal paese, reclude migliaia di persone in “catacombe” nell’attesa che si aprano corridoi umanitari e vie di salvezza. La guerra nel cuore dell’Europa è tutto questo, un’immensa tragedia dove schierarsi con l’aggredito non è conseguenza del passato, ma premessa per chi voglia costruire il “dopo”.

La divisione dei ruoli

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Un solo aspetto quel rimando alla sfida del film forse aiuta a capire ed è la divisione dei ruoli sulle prime pagine come nei talk che si replicano di sera in sera. Da una parte vi è chi sostiene la necessità di una trattativa difficile, difficilissima, tesa nell’immediato a un cessate il fuoco per quanto temporaneo; dall’altra quanti, appellandosi alla cronaca, spiegano che Putin non ha alcuna volontà di intavolare un negoziato perché l’unico traguardo – tanto più indispensabile dopo l’affondamento dell’ammiraglia Moskva – è nello “scalpo” del Donbass, possibilmente in coincidenza al 9 maggio, anniversario della capitolazione nazista. Con poche varianti questa è la dialettica di palinsesti, approfondimenti, rassegne stampa.

Ora, chi non senza ragioni è convinto che Mosca si neghi a qualunque tregua è posto innanzi a un bivio: invitare gli ucraini a una resa o sostenerne la resistenza sino dove questa si renda possibile avendo come obiettivo una sperabile, per quanto ardua, vittoria sul campo.

Escluse voci isolate che invitano Kiev ad arrendersi, i più appellandosi al diritto alla difesa sostengono la resistenza sul campo, se non proprio puntando alla sconfitta russa, almeno quale pressione aggiuntiva a che si arresti il massacro di civili.

In termini di vite il costo di questa strategia può essere pesantissimo e, in effetti, scenari simili da giorni costellano i reportage dal fronte più esposto, Mariupol e non solo. Parliamo di un dilemma politico e etico assieme: fino dove agire con un “male” (la guerra lo è sempre) si giustifica con l’impedire un “male” peggiore.

La democrazia punta alla pace

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Ci sono poi le ragioni di quanti perorano una trattativa. Per loro - e personalmente a quel partito mi iscrivo - proseguire il conflitto in qualunque modo è una sciagura destinata a ingigantire la tragedia già causato dall’invasione del paese. Fermare la strage di civili, donne, bambini, salvando assieme a quelli la sorte di migliaia di soldati delle due parti è il tentativo a cui nessuna coscienza dotata di umanità può rinunciare.

Il nodo vero è che a oggi solo questa visione si pone con giusta forza la domanda sul “dopo” e nel farlo insiste perché si compia ogni azione utile a impedire che la fine del conflitto – perché una fine vi sarà – coincida con una distesa di macerie umane, morali, materiali e politiche. In altre parole questa strada abbraccia e fa propria la volontà razionale di perseguire il bene della pace.

Di una pace, ecco il punto, da costruire con la tenacia irriducibile di chi – istituzioni, governi, partiti, movimenti, chiese, persone – non concepisce il mondo “dopo” fuori da una cornice ricostruita di convivenza e dialogo anche verso la Russia: valori essenziali se non vogliamo sacrificare il destino stesso dell’Europa.

«L’autoritarismo punta alla vittoria; la democrazia punta alla pace che è molto più della vittoria perché significa guarire le cause che hanno portato al conflitto affinché non si ripeta», così Mario Giro su questo giornale.

Difficile smentirlo se guardiamo alla parabola di un’Europa dove solo il sovvertimento di categorie storiche e mentali ha consentito di trasformare un continente vessato da odi e nazionalismi nell’area geografica più a lungo pacificata sulla terra. Ma allora?

Allora la soluzione non è semplice, forse neppure prossima, ma dopo quasi due mesi di missili, bombe, disperazioni e atrocità tocca all’Europa della pace, non quella di Versailles (1919), recuperare una funzione venuta drammaticamente a mancare.

Putin non intende sedersi a discutere? Vero. Ma quella dev’essere una ragione in più per spingere le democrazie a usare le armi fondamentali delle sanzioni e della diplomazia spingendosi dove non ci siamo ancora spinti. Farlo vorrebbe dire “svendere” il Donbass alla Russia rendendo monca la nazione ucraina (prevengo un’obiezione possibile)?

No, la risposta è no, e soluzioni diverse per le zone contese e in guerra dal 2014 esistono, dalla presenza di una forza multinazionale all’accordo su futuri referendum delle popolazioni coinvolte. Ciò che non può darsi è proseguire la corsa senza poggiare il piede sul freno, lasciando che nuove e peggiori tragedie si consumino. Perché quello sì sarebbe dirigersi incoscienti verso il burrone. In una rivendicata espressione di coerenza? Forse, ma contando e seppellendo altri morti. Oggi la risposta più alta è difendere quella coerenza per “imporre” la vita, il “dopo”, la pace. Prima che sia tardi.

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