Chi ha fondato il cristianesimo? Gesù di Nazaret, naturalmente. La risposta fino a poco più di secolo fa era scontata. Poi due giganti nella storia del pensiero come Nietzsche e Harnack avanzarono di fatto la candidatura di Paolo di Tarso, per l’enorme importanza della sua figura e del suo pensiero ma soprattutto per sottolinearne la distanza dall’ebreo Gesù. Arricchiti da questa provocazione, decenni di studi sono però tornati alla soluzione precedente, senz’altro più fondata, anche dal punto di vista della storia delle religioni.

La figura di san Paolo si staglia comunque in modo unico sullo sfondo ribollente delle origini cristiane. L’antichissima celebrazione romana insieme a san Pietro – il 29 giugno, una data convenzionale – lo ha poi esaltato, ma con il passare del tempo anche oscurato rispetto al primo degli apostoli. Così, per papa Damaso, dal 366 al 384 geniale costruttore e ideologo di Roma cristiana, i due patroni della città sono i «nuovi astri» (nova sidera) che soppiantano Romolo e Remo.

L’innovatore

Secondo Albert Schweitzer, il teologo luterano divenuto medico e missionario in Africa, poi Nobel per la pace, Paolo è piuttosto il «santo patrono» di coloro che pensano. E laicamente il cardinale José Tolentino Mendonça lo definisce ora – in un’intelligente presentazione attenta alla cultura contemporanea (Metamorfosi necessaria. Rileggere san Paolo, Vita e Pensiero) – «uno degli uomini che più hanno portato nel mondo innovazioni e idee».

Più di mezzo secolo fa Pasolini preparò la sceneggiatura di un film su san Paolo e la ambientò nei nostri giorni perché – scriveva – «è alla nostra società che egli si rivolge; è la nostra società che egli piange e ama, minaccia e perdona, aggredisce e teneramente abbraccia». Era anche la convinzione di Montini, il papa che nel 1963 aveva preso il nome dell’apostolo studiato con passione negli anni giovanili e che nel 1931 descriveva «esploratore d’una nuova e immensa zona di luce».

Una figura difficile

Paolo è una figura non facile da avvicinare. Nel sorprendente romanzo Il Regno (Adelphi) Emmanuel Carrère è riuscito a far rivivere chi, «nel bene e nel male, ha plasmato forse più ancora di Gesù venti secoli di storia occidentale». Tra storia e immaginazione plausibile – a cominciare dalla sua descrizione, fondata in realtà su un testo apocrifo e sullo stereotipo iconografico antico del filosofo – Paolo si presenta come un piccolo uomo «calvo, con la barba, la fronte bombata, le sopracciglia unite sopra il naso». Vivo come il suo discepolo Luca, l’eroe del romanzo.

La stessa intenzione di Carrère si ritrova ora in una appassionata e appassionante ricostruzione di un eccellente biblista protestante, che ha studiato a lungo gli scritti di Paolo e di Luca (cioè il vangelo e gli Atti degli apostoli). Nelle oltre cinquecento pagine di Paul de Tarse (Éditions du Seuil) Daniel Marguerat si fonda sui suoi studi precedenti – importante è soprattutto Paolo negli Atti e Paolo nelle Lettere (Claudiana) – ma li trasforma in un racconto che vuole restituire «la vita oltre il fossile» di un «enfant terrible del cristianesimo», che è stato appunto fossilizzato. E ci riesce benissimo.

Studioso dei testi, Marguerat racconta la vita e il pensiero di Paolo interpretando i dati storici e contestualizzando una teologia nata «dal braciere che è stata la sua vita», comprese la sua fortuna e sfortuna. Ne risulta un personaggio esplosivo, per nulla «polveroso» e sorpassato, ma che sta ancora «davanti a noi». Nonostante venti secoli di interpretazioni, polemiche e riletture che – secondo lo studioso ebreo Daniel Boyarin – collocano i suoi testi «tra i più grandi della letteratura».

All’incrocio di tre mondi 

Ma chi è questo personaggio tanto amato e detestato? Nato a Tarso, nell’attuale Turchia meridionale, intorno all’anno 5 della nostra era, è un giudeo della diaspora. Saulo – poi Paolo – viene educato a Gerusalemme ed è «religiosamente ebreo, culturalmente greco, politicamente romano»: dunque «all’incrocio di tre mondi». Boyarin e Alan Segal, un altro studioso ebreo, sono convinti che Paolo documenti nel modo più attendibile chi sia un fariseo prima della terribile guerra giudaica, che nel 70 si conclude di fatto con la distruzione del Tempio di Gerusalemme.

Questo ebreo profondamente ellenizzato, che dopo la crocifissione di Gesù perseguita i suoi seguaci, lo incontra in modo misterioso – ma secondo Segal del tutto compatibile con la mistica ebraica – nella celeberrima conversione sulla via di Damasco intorno al 32. Così l’apostolo che probabilmente non ha mai conosciuto Gesù si rivela quello a lui «più vicino».

È la svolta nella vita di Paolo, che da quel momento si trasforma in un trentennio strabiliante. Sicuramente importanti, ma difficili da ricostruire, sono gli anni di Antiochia, la grande metropoli della Siria dove per la prima volta i seguaci di Cristo vengono chiamati cristiani, e conflittuale resta sempre il rapporto con la comunità di Gerusalemme sull’apertura universalista ai pagani.

L’epopea della missione

Vengono poi i viaggi missionari, attentamente pianificati con obiettivi ambiziosi, raccontati con una tendenza a smussare i contrasti – ma soprattutto con partecipazione e maestria – da Luca negli Atti degli apostoli. Paolo, uomo che sa coinvolgere moltissimi discepoli, percorre Cipro, l’attuale Turchia occidentale, entra in Europa, vive a lungo in Grecia. È un’epopea piena di colpi di scena, che si conclude con l’arresto a Gerusalemme, l’appello all’imperatore, il viaggio verso Roma con un naufragio a Malta. Poi tutto sfuma.

Restano le lettere, in parte scritte da discepoli per far rivivere Paolo, in tutto circa un terzo del Nuovo Testamento. Ma sette sono indiscutibilmente autentiche: dalla più antica – la Prima lettera ai Tessalonicesi, dettata intorno all’anno 50 e che fa di Paolo il primo autore cristiano – fino al capolavoro che ha una fortuna immensa, la Lettera ai Romani. Testi che si conoscono poco e che invece vale la pena leggere per intero, d’un fiato, anche senza pretendere di capire tutto, come spesso mi è capitato a lezione, incantando chi leggeva e ascoltava. Marguerat sa raccontarle magnificamente.

Fino all’arrivo a Roma nel 59. Qui, nella capitale dell’impero, Paolo viene messo a morte qualche anno dopo. La sua fine – tradizionalmente per decapitazione – è raccontata in modo suggestivo da un apocrifo: Paolo si volta verso oriente, alza le mani al cielo, prega «a lungo» in ebraico e infine piega il collo senza dire più parola.

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