Il tycoon attacca con le superbombe e poi rinuncia a rispondere alla ritorsione iraniana. In pratica vuole un pareggio che salvi la faccia a tutti. È una mossa che fa capire come gli Stati Uniti rilancino il loro ruolo di arbitri, avendo però perso la capacità di negoziare. La verità? Al di là dei proclami e degli slogan, in Medio Oriente si continua a navigare a vista
Donald Trump prova la mossa del paso doble: attacca l’Iran con la superbomba sui siti nucleari e non reagisce alla ritorsione (telefonata) iraniana sulle basi Usa in Iraq, Siria e Qatar. Il problema è che le basi americane sono vicine e possono essere raggiunte da missili balistici di medio raggio con un minor tempo di allarme e reazione. I lanci su Israele devono fare molti più chilometri e possono essere avvistati con largo anticipo.
Il Trump che nella notte annuncia la tregua e «benedice» sia Israele che Teheran, lodando il loro coraggio, vuole un pareggio che salvi la faccia a tutti. La guerra non si deve allargare. Gli Stati Uniti non vogliono essere costretti a combattere direttamente con gli israeliani: non è mai accaduto. Tel Aviv deve interrompere i bombardamenti rinunciando al vantaggio tattico che le offre il dominio dei cieli. Una guerra Israele-Usa contro una potenza musulmana non s’è mai vista: gli americani sostengono Israele, ma non si espongono con Tsahal e non hanno mai voluto la partecipazione di Israele nelle loro guerre in Medio Oriente.
In molti casi hanno svolto il ruolo di mediatori, hanno frenato Israele e hanno imposto il dialogo, come dopo la guerra del Kippur o i vari conflitti a Gaza e in Libano. Trump segue la medesima linea ma con un metodo diverso: non negozia, ma impone. Deve recuperare sulle promesse fate al popolo Maga che mugugna: mai più guerre inutili.
Ma con il suo modo diretto e senza appelli rischia tutto. Già la mattina dopo l’annuncio della tregua ci sono state violazioni da entrambe le parti: soprattutto Tel Aviv vorrebbe trascinare gli Stati Uniti in una guerra totale con l’Iran; è il sogno di Netanyahu.
Ciò sarebbe contrario a tutte le regole storiche della politica americana in quell’area: sostenere Israele ma mai fino al punto di combattere apertamente al suo fianco. Washington deve lasciarsi sempre lo spazio di manovra per mediare o riordinare l’area dopo un conflitto. Tuttavia il “metodo Trump” (che non prevede veri negoziati) indebolisce la politica americana e la sua capacità di influenza.
Gli israeliani mordono il freno: la tattica del premier è di allargare la guerra all’infinito per non dover rispondere degli insuccessi: 7 ottobre; nessuna sconfitta di Hamas; incertezze in Libano ecc. Il governo suprematista e millenarista israeliano non possiede una strategia.
Netanyahu è stato fino ad ora un maestro in tattica militare e politica: ha quasi distrutto Hamas, ha indebolito decisamente Hezbollah, ha fatto saltare l’arco sciita e ha attaccato l’Iran sul suo territorio. Molti paesi attorno guardano a tali azioni con soddisfazione: a nessuno è mai davvero piaciuto il governo dei mollah. Ma il premier israeliano non ha una strategia conclusiva e porta avanti guerre senza scopo e senza fine.
Qual è lo scopo a Gaza? Forse l’unico è la completa eliminazione dei palestinesi ma non potrà ottenerlo: è troppo anche per uno come lui. Quale sarebbe lo scopo in Libano? Siamo alle solite: attaccare, andarsene e poi riattaccare e così all’infinito. E con la Siria? Rosicchiare pezzetti di territorio fino a che Ankara non reagirà e poi chissà… si vedrà.
E quale sarebbe lo scopo con l’Iran, dove non si potranno mettere boots on the ground? L’idea di cambiare regime è già abbandonata: i regime change hanno fallito creando solo un caos peggiore. Anche Trump vi ha rinunciato. E allora in Medio Oriente si naviga a vista. Israele, pur così forte, non sa più vincere perché non sa darsi obiettivi realistici e realizzabili. Sono guerre apocalittiche che si perdono per strada senza un obiettivo possibile. Ma se non si sa più come vincere, alla fine si perde. Questo i terroristi lo sanno bene. Il tycoon lo ha intuito e segue il suo istinto: non vuole cacciarsi in un tunnel alla fine del quale non c’è vittoria.
Ma gli Stati Uniti dovrebbero avere una strategia per il domani che per ora non possiedono. The Donald è irritato con Netanyahu, ma non sa cosa offrire in cambio: non è il tipo da trattative lunghe e laboriose come fu Camp David. Eppure è proprio di questo che c’è urgente bisogno: non si negozia più da decenni.
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