L’ultimo grido d’allarme è arrivato dal tennista tedesco Sascha Zverev dopo l’eliminazione a Wimbledon. Un fenomeno diffuso ma ancora incomprensibile a molti. Lo sviluppo precoce del talento porta a uscire dalla famiglia molto presto, sacrificando alla performance la cerchia delle persone di cui potersi fidare. Un modello di vita che incide sullo sviluppo emotivo e sociale senza sperimentare empatia e conflitti. La fama crea distanza, la necessità di essere protetti porta a un senso di paranoia e insicurezza
Sul fatto che i soldi non diano la felicità c’è un’ampia letteratura. Sembra però che non la dia neppure il successo. E nemmeno la bellezza. Ce lo dicono sempre più spesso campioni e campionesse dello sport ricchi, famosi e in corpi perfetti.
L’ultimo a farlo è stato pochi giorni fa Alexander Zverev detto Sascha, numero tre del tennis mondiale che, nella conferenza stampa post sconfitta al primo turno del torneo di Wimbledon, si è lasciato andare a una confessione a cuore aperto: «Mi sento molto solo nella vita – ha detto – non provo più gioia nelle cose che faccio. Ho bisogno di aiuto».
Parole che hanno scatenato l’onda impetuosa, e anche impietosa, del bisogno irrefrenabile di esprimere la propria opinione, quella che in troppi, in quest’epoca della comunicazione, riescono a soddisfare facilmente. Una marea di critiche, luoghi comuni e diagnosi spicciole a evidenziare che il disagio mentale degli atleti di alto livello è ancora molto stigmatizzato e la sua accettazione, quale fenomeno diffuso piuttosto che evento sporadico, risulti ancora incomprensibile per molti.
Il coraggio
È un problema complesso, che va ben oltre la semplice delusione per una sconfitta o la pressione dell’agonismo: spesso taciuto per paura di mostrare debolezza, in un ambiente fondato sulla competizione estrema e costruito sulla narrazione eroica, sta però emergendo con forza, sintomo di un cambiamento culturale che spinge il mondo dello sport a interrogarsi profondamente. Emerge, grazie anche al coraggio di figure di spicco come Zverev e prima di lui Naomi Osaka, Simone Biles, Michael Phelps, Federica Pellegrini, che non hanno avuto paura di aprirsi e rivelare le proprie fragilità. Grandi atleti che hanno squarciato il velo, dimostrando che il disagio psicologico non è un segno di fallimento, ma una condizione che può colpire chiunque. Che si tratti di esaurimento (burn out), depressione, ansia, disturbi del comportamento alimentare o altro, molti disagi che possono affliggere campioni e campionesse hanno una radice comune: la solitudine.
La solitudine dei numeri primi (andando a ripescare il concetto espresso nel bestseller di Paolo Giordano) calza a pennello per descrivere una delle più profonde criticità nella vita di un atleta di alto livello: lo sradicamento. Lo sviluppo del talento, la specializzazione precoce, tendono a legarsi alla necessità di lasciare la famiglia e il proprio ambiente d'origine per vivere là dove ci siano le migliori opportunità di crescita. Per restare in ambito tennistico, Jannik Sinner a soli 13 anni ha lasciato la Val Pusteria e i suoi genitori per andare a Bordighera alla scuola di Riccardo Piatti, intraprendendo un percorso che lo avrebbe portato ai vertici mondiali, ma a costo di un'infanzia e un'adolescenza segnate da un distacco precoce.
La scalata precoce
Non è un'eccezione ma la norma che spesso, a seconda del tipo di specialità praticata, porta via da casa anche in età inferiori. Giovani promesse in tutte le discipline sportive vivono esperienze simili, sacrificando legami affettivi e l’ambiente famigliare sull'altare di un sogno. Questa solitudine, inizialmente fisica, evolve rapidamente in una condizione esistenziale. E nella scalata verso il vertice, la cerchia delle persone di cui potersi fidare si restringe ulteriormente a uno staff di tecnici, personale medico, manager con cui il rapporto, per quanto di affetto e stima possa essere, si definisce nel raggiungimento della performance.
Amicizie autentiche, disinteressate, diventano un lusso raro in un ambiente dove la competizione è feroce e soprattutto vorace, perché si mangia spazio e tempo per qualsiasi altra cosa non sia funzionale alla prestazione.
Il viaggio verso l'eccellenza sportiva inizia in età incredibilmente giovane, trasformando l’adolescenza e la giovinezza in una sorta di acceleratore emotivo e fisico. Mentre i coetanei scoprono le amicizie attraverso il gioco spontaneo, esplorano diversi interessi e sviluppano un senso di sé in un'ampia gamma di esperienze, i giovani atleti sono immersi in un regime di allenamento intensivo, altamente strutturato e tendenzialmente esclusivo (nel senso che esclude ciò che non è funzionale alla crescita atletica).
Lo sviluppo emotivo spezzato
Questo modello di vita precoce incide profondamente sullo sviluppo emotivo e sociale. Manca spesso la possibilità di sperimentare conflitti o, al contrario empatia, al di fuori del contesto sportivo. La scuola e poi l’università (per chi ce la fa) diventano un obbligo da incastrare tra una sessione di allenamento e l'altra e non un’occasione per vivere pienamente ciò che l'esperienza offre anche in termini di socializzazione. Il rischio, nel crescere attraverso questo tipo di percorso, è diventare una persona adulta che, pur eccellendo in una specifica abilità fisica, manca di quel nucleo affettivo stabile e solido con cui arginare il maggiore dei pericoli che un atleta possa correre: identificarsi con la propria performance.
Con il progredire della carriera, la solitudine assume nuove forme. La vita di un atleta professionista è una peregrinazione costante. Aeroporti, hotel, impianti sportivi diventano le uniche "case" in un tour che abbraccia il mondo intero. Questo nomadismo forzato impedisce la costruzione di una rete sociale solida e significativa e ostacola fortemente la creazione di relazioni stabili. E poi c'è la fama. Paradossalmente, quanto più un atleta diventa celebre, tanto più può sentirsi isolato. La fama crea una distanza. La necessità di essere protetti mentre ogni passo è sotto i riflettori, ogni espressione analizzata, ogni risultato sviscerato, portare a un senso di profonda paranoia e insicurezza, minando ulteriormente la fiducia negli altri e acutizzando il senso di isolamento.
Persone e personaggi
L'atleta diventa un'icona, un prodotto, e in questo processo, la persona dietro il personaggio rischia di perdersi. Chi sta leggendo potrà criticare la solitudine del campione con la formula del “benaltrismo” un po’ come ha fatto lo stesso fratello di Sascha: «Lui infelice? La vita è dura per i bambini in Africa non sull’erba di Wimbledon» ha dichiarato.
Ma, sebbene esistano drammi oggettivi e difficoltà di portata globale di cui, purtroppo la cronaca è colma, il disagio psicologico di un individuo, qualunque sia la sua posizione sociale o economica, è reale e merita rispetto. E soprattutto merita attenzione una visione critica dello sport agonistico di alto livello, sempre più strutturato come un’insostenibile catena di montaggio per produrre performance a ciclo continuo. Un sistema che, nella sua ricerca ossessiva del risultato, rischia di triturare l'individuo, ignorando i suoi bisogni più profondi.
Se gli interventi non saranno strutturali, per volere di chi lo sport lo organizza, per fortuna oggi ci sono i campioni del nuovo millennio a segnare una svolta. Sono loro a dare l’esempio alle nuove generazioni di atleti; sono loro che anche dopo le sfide più accese si sorridono, si abbracciano, si consolano, si celebrano, sono solidali; dimostrano che essere avversari e amici non è un ossimoro ma un potente segnale di un'evoluzione culturale che riconosce il valore dell'individuo al di là della classifica. Che disegna uno sport più umano unendo la ricerca dell'eccellenza alla costruzione di relazioni autentiche e a un benessere che non può restare fuori dalla vita agonistica, perché solo quella ci sarà per tutta la durata della carriera. In nome di uno sport che non sia presti più ad essere la gabbia in cui la solitudine dei numeri primi diventi sinonimo della solitudine dei numeri uno.
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