Vincitore del premio Pulitzer con Less, in Italia edito da La nave di Teseo nel 2017, Andrew Sean Greer è da poco tornato in libreria con Less a zonzo (La nave di Teseo 2023). Scrivere un sequel non è semplice, serve una grande dose di coraggio; e di bravura, inutile negarlo. Scrivere il sequel di un romanzo che ha avuto molto successo vincendo un premio come il Pulitzer è un’operazione che potrebbe sembrare suicida. Eppure Greer è riuscito nell’intento di scrivere una storia che, con grande lucidità, fa tornare in vita un protagonista stupendo, luminoso e divertente, aggiungendo, allo stesso tempo, nuovi episodi che non sono superflui, ma che anzi ben s’incastrano con quello che abbiamo già letto. Insomma, il ritorno di Arthur Less è meraviglioso: a questo scrittore buffo si continua a volere un gran bene.

Quando ha capito che la storia di Arthur Less non era finita?

Dopo tanto tempo dall’uscita di Less. Avevo iniziato a scrivere un romanzo e ne avevo un centinaio di pagine, però l’odiavo, e non funzionava. Quando mi capita una cosa del genere devo reinventare la storia cui sto lavorando: è stato allora che sono tornato ad Arthur Less.

Le succede spesso?

Quasi sempre. Con Less, ad esempio, è accaduto.

Cos’ha fatto in quel frangente? Con Less, intendo.

L’ho trasformato in una commedia, la storia che leggete oggi: la prima stesura era più seriosa.

Con Less a zonzo com’è andata, invece?

Stavo scrivendo del mio paese e delle preoccupazioni che avevo all’epoca per quel che stava succedendo negli Stati Uniti, ma qualcosa che strideva. A metà strada ho capito che a non funzionare era il protagonista: avevo bisogno di un alter ego che covando i miei pensieri avesse uno sguardo più leggero, ironico. E ho ripreso Arthur Less, pure se con diffidenza.

Perché?

Perché i sequel sono difficili. E poi Less ha vinto il Pulitzer, ed è stata la mia stessa agente a dirmi che non era una buona idea scrivere il seguito.

Cosa le ha detto dopo averlo letto?

Che non ricordava d’avermi cercato di scoraggiare e che adora Less a zonzo. Insomma, ha fatto l’agente (ride, ndr).

Ha detto che il romanzo cui stava lavorando prima d’iniziare Less a zonzo era su certe «preoccupazioni sul suo paese». Si riferiva a Trump?

Alla notizia della sua vittoria, nel 2016, ero scioccato. Mi dicevo «non capisco il mio paese, non lo conosco». Più ci pensavo più soffrivo. Quello che stava capitando mi terrorizzava ma per affrontarlo dovevo prima cercare di capirlo.

Dunque cos’ha fatto?

Ho affittato un camper, mi sono messo in viaggio andando in paesi in cui non ero mai stato e che, per certe dinamiche, connotazioni, mi spaventavano. Una volta tornato a casa poi ho trasformato in narrativa quel che ho visto.

Ha fatto un viaggio simile a quello che Arthur Less fa nel libro.

Sì, ma il mio è stato più lungo: sei settimane. Molte cose che ho visto, che mi sono state raccontate, che mi sono capitate, le ho poi scritte mescolandole alla finzione. È per questo che adoro scrivere e raccontare storie di fantasia: la vita non ha una forma vera e propria, mentre alla narrativa possiamo darla.

Dov’è stato?

California, l’Arizona e il New Mexico, dopo un anno, poi, Georgia, Alabama, Mississippi, Arkansas e Carolina del Sud.

Era solo?

Il primo viaggio l’ho fatto con degli amici, ma è stato un errore. Divertente, sì, ma con loro non sono riuscito a prestare attenzione a ciò che avevo attorno. Così il secondo viaggio l’ho fatto solo.

Less gironzola per il sud degli Stati Uniti e spesso la sera visita bar, pub, ristoranti tipici di quelle zone: le zone rurali, periferiche.

È quel che ho fatto io. Mi sedevo a un bar, incontravo i locali e bevevo birra.

E cosa succedeva?

Le persone, perfetti sconosciuti, mi raccontavano le loro storie.

Perché si aprivano con tanta semplicità?

Ne avevano bisogno e credo sia importante il modo in cui ci poniamo all’altro. Io con questi sconosciuti ero aperto, e li ascoltavo con tutta l’attenzione di cui ero capace. Di quanta gente nella nostra vita possiamo dire lo stesso?

Di sé stesso cosa raccontava?

Niente, avevo paura potessero giudicarmi. Dicevo di vivere nel Maryland.

Ma lei non vive nel Maryland.

No, ci sono solo nato: è che a nessuno importa del Maryland e volevo che con me si ponessero con un atteggiamento di apertura totale.

C’è una storia, tra quelle che le sono state raccontate nel suo viaggio, che le è rimasta impressa?

Un pomeriggio, alla guida del camper, sono stato fermato da un poliziotto per non aver rispettato uno stop, non l’avevo visto, giuro! (ride, ndr). Mi ha chiesto di mostrargli il camper, se avessi usato droga, trasportassi materiali pericolosi o avessi altro da dichiarare. Dandogli i documenti, gli ho chiesto se fosse nato lì, e lui mi ha raccontato la sua storia. Da giovane sognava d’andarsene, e di girare il mondo e visitare posti nuovi, ma aveva avuto un figlio troppo presto ed era rimasto bloccato lì.

Tornando a ciò di cui parlavamo all’inizio, al fatto che spesso, scrivendo, ha la sensazione che qualcosa non funzioni, e deve rimaneggiare la storia. In un’intervista, ha detto che le capita di frequente, nel corso della prima stesura, di avere una crisi. Era a questo che si riferiva?

Sì, esatto.

Scrivendo Less a zonzo è successo?

Certo, ed è stata dura superarla.

Com’è andata?

È capitato quand’ero a metà stesura, ho avuto l’impressione che qualcosa non funzionasse, però non capivo cosa. E alla fine, ho tagliato circa ottanta pagine, due capitoli. È stato doloroso eliminare parti così corpose, ma andava fatto.

Cosa fa quando ha queste crisi?

Bevo (ride, ndr). Faccio lunghe passeggiate, ballo, leggo i miei libri preferiti.

Arthur Less sente di non appartenere: ai posti e alle persone in cui e con cui si trova. A lei succede?

Continuamente, solo di rado sono a mio agio in un posto o con una persona.

Quando si sente a suo agio?

Quando mi trovo tra dei narcisisti come me.

Lei non mi sembra narcisista.

Ma guardi come sono vestito!

Bene. Semplicemente, lei è vestito bene, Greer.

Be’, sono un narcisista. Mi creda.

A volte Arthur Less sembra pure un testimone delle vite altrui. Crede sia condizione comune agli scrittori?

Penso sia una condizione comune ma non agli scrittori quanto a tante persone. Certe sono capaci di prestare attenzione in modo partecipato, di porsi in modo aperto, così diventano testimoni delle vite degli altri. Qualcosa che spesso va a braccetto con una forte sensibilità, una carica di sofferenza esistenziale.

A proposito della sessualità: è raro leggere una storia d’amore gay felice.

L’ho scritta apposta: volevo che in libreria ci fosse una storia del genere, cosa che a me, da adolescente, è mancata e avrei voluto leggere. Ce ne sono, chiaro, ma poche. Secondo la mia esperienza, la comunità gay è piena di gioia, anche quando protesta è divertente, colorata, felice. C’è della rabbia, ma siamo ben capaci di canalizzarla in un modo che non ci faccia soffrire ulteriormente.

Parliamo adesso di Freddy Pelu, il compagno di Arthur Less. Lui era già il narratore in Less, però non compariva mai: era una voce fuori campo. Mentre in Less a zonzo è anche un personaggio a sé.

Be’, questo è il libro di Freddy.

Perché?

Perché era giusto che pure lui avesse corpo. E poi a me Freddy piace molto.

In che senso?

In tutti i sensi. L’ho scritto così perché è il mio tipo d’uomo, sia fisicamente sia caratterialmente. I capelli scuri, gli occhiali, i ricci, è intelligente, gentile, comprensivo. Ho scritto il mio uomo dei sogni.

L’ha trovato, il suo Freddy?

Oh, sì. Ed è italiano. Tra l’altro, è qui in giro (si guarda attorno, lo trova, lo saluta e gli sorride, ndr). Tant’è che ormai vivo tra gli Stati Uniti e l’Italia.

Parliamo del Pulitzer. Come l’ha scoperto?

Ero a una residenza d’artista a Firenze ed ero tutto preso a insegnare a un cane come usare il pannolino, quando Enrico – il mio Freddy Pelu, appunto – mi ha passato il suo cellulare. Andrew Sean Greer ha vinto il premio Pulitzer, così titolava un giornale.

Scusi, perché stava insegnando a un cane come usare il pannolino?

Perché in quei giorni sarebbe venuta Margaret Atwood, e il cane non riusciva a trattenersi. E, sa, non si può accogliere Atwood con la residenza tutta zozza.

Okay, torniamo al Pulitzer.

Non ci ho creduto, mi sembrava uno scherzo. Così ho recuperato il telefono, e l’ho trovato pieno di messaggi. Allora ho cominciato un po’ a crederci.

Messaggi di congratulazioni?

Sì, ma dei miei amici: soprattutto emoji – sullo schermo avevo una lunga lista di banane, cetrioli, hot dog, e la donna che balla, l’uomo che suona la chitarra, la faccina gialla con la lingua di fuori.

Insomma, Greer, quando ha realizzato di averlo vinto, il Pulitzer?

Quando mi ha chiamato Michael Chabon, scrittore mio amico e vincitore pure lui del Pulitzer. Urlava: «Andy, hai saputo? Andy, te l’hanno detto?». E allora mi sono detto che non poteva essere uno scherzo: sarebbe stato crudele oltre ogni limite. È stato incredibile. Subito dopo ho ricevuto messaggi e telefonate da Michael Cunningham, Jhumpa Lahiri, Jeffrey Eugenides, Donna Tartt.

Greer, un’ultima domanda. Lei vive in Italia e negli Stati Uniti: qual è la sua percezione sul nostro paese, in materia di diritti civili e lgbtq?

In Italia ci sono ancora troppi problemi. Lo so perché me ne rendo conto, nei periodi in cui abito qui, ma anche perché sono i lettori a dirmelo, scrivendomi sui social. L’atteggiamento del nuovo governo mi pare assurdo, poco italiano. Ho sempre associato il vostro paese alla famiglia, per il vostro modo d’essere e di accogliere chi è diverso. Due uomini o due donne non possono tenersi la mano in strada, se prenotano una stanza in hotel si trovano letti separati e non un matrimoniale, se vanno al ristorante e sono intimi si possono anche trovare addosso occhiate indagatrici. Costa vi sta capitando? Non è bello quel che sta avvenendo in Italia, davvero.


Less a zonzo (La nave di Teseo 2023, pp. 272, euro 20) è l’ultimo romanzo di Andrew Sean Greer

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