Nell’estate del 1995, commentando con Roberto Ciaccio un libro nel quale erano raccolti scritti a lui dedicati da Jacques Derrida, Maurizio Ferraris, Mario Perniola, Gianni Vattimo e altri, gli feci notare che un filosofo che certamente avrebbe colto il senso del suo lavoro di astrattista sarebbe stato Remo Bodei. Il libro oggetto della nostra conversazione, L’opera e l’origine. Annotazioni di luce in otto momenti per Holzwege di Martin Heidegger, a cui collaborai con un saggio, era stato pubblicato da Umberto Allemandi nel dicembre del 1994.

Bastò che Ciaccio ne inviasse una copia a Bodei, da sempre mio buon amico, perché tra i due prendesse corpo una grande amicizia e una collaborazione che dal 1996 si è protratta fino alla scomparsa dell’artista, nel 2014.

Visibile e invisibile

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Tra i tanti filosofi che hanno scritto di lui, Bodei è stato quello che più di altri ha posto in evidenza come il suo lavoro si collocasse sulla soglia tra il visibile e l’invisibile. La luce, nella poetica di Ciaccio, non era rappresentata infatti nel suo fulgore, ma nel rapporto col suo opposto, con i toni dell’oscurità da cui cercava di emergere.

Le riflessioni di Bodei che hanno affiancato i lavori di Ciaccio ci possono accompagnare quando ci muoviamo tra le sale Museo delle Culture di Lugano  (fino al 26 febbraio, a cura della figlia Silvia, in collaborazione con Nora Segreto) e della galleria Building di Milano (fino al 15 ottobre, a cura di Francesco Tedeschi), che presentano circa quaranta lavori per mostra, realizzati tra il 1990 e il 2013.

Astrattista radicale, Ciaccio ha sempre legato la sua pittura alla riflessione filosofica, un’idea, questa, che lo accomunava ad Arthur C. Danto, secondo il quale, da Duchamp in poi, l’arte ponendosi al di là dell’ambito meramente “retinico”, fa proprie le dinamiche della dimensione teoretica.   

Influenze heideggeriane

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Ciaccio ha sempre manifestato interesse per Martin Heidegger, in particolare per Sentieri interrotti e per L’origine dell’opera d’arte. Era attratto dal pensiero heideggeriano secondo cui il termine greco aletheia (verità) indica un “non-nascondimento”, come dire che la verità si mostra nel momento in cui riusciamo a sollevare il velo che la avvolge nascondendola.

Il luogo privilegiato in cui si manifesta la verità è, per Heidegger, proprio l’opera d’arte. La verità non emerge in modo evidente, “alla luce del sole”, come si è creduto per lungo tempo nell’ambito del pensiero occidentale, ma in un gioco di luce e oscurità. La verità, essendo inseparabile dal nascondimento, si svela in quella radura (lichtung) che nella foresta accoglie la luce, come accade quando un raggio di sole penetra nel buio attraverso la fitta chioma degli alberi.

Mi donò una cartella di otto grafiche realizzate con la tecnica dell’acquatinta nella stamperia milanese di Giorgio Upiglio. Si trattava delle Otto annotazioni di luce per Holzwege, in cui egli ha tradotto visivamente la radura (lichtung) heideggeriana. L’acquatinta, con i suoi toni grigi, diversamente dalla serigrafia, mostra un territorio di confine in cui i contorni non sono netti. I vari passaggi di grigio simboleggiano così l’intrecciarsi di luce e di oscurità che caratterizza i Sentieri interrotti di Heidegger e ha segnato il cammino artistico ed esistenziale di Ciaccio.  

L’attuale mostra milanese fa idealmente seguito a quella del 2011 a Palazzo Reale di Milano. Il titolo, Soglie del tempo, coglie uno degli aspetti più importanti dell’astrazione di Ciaccio, per il quale il tema della soglia rappresenta una costante che lo ha spinto a riflettere a lungo sulle diverse forme della temporalità e sulla rappresentazione dello spazio. Questa scelta derivava dalla sua formazione classica, che lo portava a considerare il divenire temporale al di là della semplice dimensione cronologica in cui gli eventi si susseguono secondo un prima e un poi.

Uscire dalle tenebre

Nel 2006, in occasione della mostra di Ciaccio al Kulturforum, a Berlino, Bodei scriveva in catalogo che una composizione di François Couperin e un libro del filosofo Roger Caillois avevano in comune il titolo di Leçons de Ténèbres. La lingua francese, commentava Bodei, consentiva di udire al tempo stesso “Lezioni di tenebre” o “I suoni di tenebre”. In entrambi i casi, proseguiva, qualcosa giunge dalle tenebre, «qualcosa esce, districandosi, dal buio, per mostrarsi in sottili contrasti e sfumature di luce ed ombra». I lavori di Ciaccio esprimevano a suo avviso entrambi i significati.

La luce proviene infatti dall’oscurità e si avverte, allo stesso tempo, un suono sospeso nell’aria, che resta in bilico tra un ritorno alle tenebre e uno svanire nel silenzio. La differenza nei toni – e non il solo buio o la pura luce abbagliante – esprime allora la nostra condizione, che si snoda in una «trama di rinvii dalla luce al buio e dal buio nuovamente alla luce o da una gradazione di colore all’altra».

Le monocromie, i toni grigi, il bianco e il nero, dimostrano quanto la lezione di Malevič, Reinhardt o Newman sia stata ripensata criticamente da Ciaccio, che si accosta alla forma astratta non per aderire a un accademismo modernista, ma perché, volendo rappresentare l’invisibile, deve rinunciare alla figurazione. Il sublime, che si pone al centro della sua opera, non può trovare espressione se non nella negazione dell’immagine o in quelle velature che indicano una presenza senza delinearne i contorni. Ecco perché nella religiosità delle immagini di Ciaccio il divino appare indicibile e lontano.   

Bellezza improvvisa

Dinnanzi alla domanda sull’Essere, come dinnanzi alla domanda sulla bellezza, ci si sente afasici sul piano del linguaggio discorsivo e aniconici in pittura. «Cosa sia la bellezza non so», diceva Dürer, esprimendo così l’ineffabilità dell’esperienza estetica, che  ci coglie in situazioni in cui il tempo sembra sospeso.

La più adatta definizione per descrivere la bellezza, si trova nell’espressione platonica exaiphnes (all’improvviso), che incontriamo nel Simposio per indicare l’istante in cui ci accade di contemplare il Bello. Ciaccio ha dato immagine alla soglia che ci separa e ci consente, al tempo stesso, di scorgere oltre il sensibile. Si riconosce dunque nella Diotima platonica, per la quale chi è giunto al termine del suo percorso, «scorgerà immediatamente (exaiphnes) qualcosa di bello, per sua natura meraviglioso». L’espressione ricorre in altri passi fondamentali dei Dialoghi e si ritrova nella Settima lettera, per descrivere l’attimo in cui scorgiamo i principi della filosofia, dopo aver  attraversato intricati sentieri. La conoscenza di tali verità – scrive Platone – non è affatto comunicabile, ma emerge improvvisamente (exphaines), «come luce che si accende dallo scoccare di una scintilla». La bellezza, manifestazione visibile del mondo delle idee, consente così di oltrepassare, non di negare, il mondo sensibile.

Ciaccio ha cercato lungo tutto il suo cammino di artista di visualizzare proprio quell’attimo in cui, osservando la realtà sensibile, riusciamo a oltrepassarla. Si sarà sicuramente identificato nel passo del Faust in cui Goethe, descrivendo l’incontro tra Faust ed Elena, ricorre al termine Augenblick (il “batter d’occhio”), per indicare «l’istante eccezionale di felicità offerto dal destino».  Nell’attimo dell’Augenblick goethiano, che ricorda l’exaiphnes platonico, accade che la temporalità si arresti, come se l’assolutamente presente dell’eterno facesse irruzione nel divenire ordinario della nostra esistenza.

Accanto al semplice scorrere del tempo (chronos), i greci ponevano il momento opportuno (kairòs), una condizione privilegiata che ci sottrae, nell’attimo, alle consuete leggi del divenire, consentendoci di procedere oltre. Ciaccio è stato un artista che ha scelto questo territorio di confine, in cui l’evento è visto come il segno di una realtà che rinvia a un altrove. Opere come Le son des ténèbres possono così dialogare con immagini luminose, testimoniando la stretta relazione tra la luce e le tenebre. La materia della pittura non viene negata, ma si mostra come un luogo di transito e conduce verso territori che alludono a un’esperienza metafisica.

La mostra di Milano si snoda attraverso un itinerario che procede dai lavori su metallo a quelli su carta e su tela. Il gioco di rinvii e di toni cromatici ricorda le variazioni su tema che potremmo trovare in Bach, ma anche in Philip Glass. La soglia, come la complementarietà di luce e oscurità, chiama in causa il pensiero contemporaneo, da Heidegger a Derrida, un pensiero che rivive nelle immagini astratte che hanno segnato i Sentieri di Roberto Ciaccio.     

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