La scienza, nel tempo, ha sviluppato un modello della realtà su tanti livelli. Questi livelli possono interagire l’uno con l’altro ma, tendenzialmente ha molto più senso guardarli isolati, come sistemi a sé stanti. La scienza ama semplificare, quindi guarda alle interazioni degli elementi di un sistema solo. Facciamo un esempio classico: non è che la fisica e la chimica siano cose diverse. Semplicemente, la chimica si occupa principalmente dello scambio di elettroni fra gli atomi, e guarda il mondo da quel punto di vista lì. È utile, funziona. Chiamiamo questo sguardo “chimica” per convenzione.

Secoli fa gli alchimisti scoprivano le prime reazioni tra sostanze ed elementi, poi con il tempo e l’intelligenza collettiva di migliaia di persone abbiamo capito meglio, abbiamo scoperto alcune leggi, le abbiamo testate, abbiamo scartato quello che non faceva tornare i conti. Abbiamo scoperto definizioni migliori: il flogisto, una sostanza che “spostava” il calore, è stato abbandonato per la più precisa idea di temperatura, che coinvolge anche la meccanica statistica.

Piano piano la nostra visione scientifica del mondo si è complicata sempre di più. La chimica ha a che fare con la fisica e con la meccanica statistica e con la biologia e, ovviamente e inspiegabilmente, con la matematica. Certo, non dobbiamo mai dimenticare che questi sono tutti nomi, parole: in fondo, rimaniamo scimmie evolute che osservano un universo irriducibilmente complesso.

Non possiamo che usare strumenti incompleti come le parole (e formule matematiche) per trovare regolarità a questo universo irriducibile e innominabile, ma sappiamo anche che la nostra conoscenza, per quanto non perfetta, è potentissima. I nostri modelli dell’universo funzionano abbastanza bene, e il mondo attorno a noi ce lo dimostra. Se pensate in quanti pochi secoli abbiamo costruito tutta la tecnologia, tutta l’infrastruttura tecnica, politica, sociale, culturale che ci circonda vengono le vertigini.

L’edificio delle conoscenze scientifiche che abbiamo costruito è enorme. La scienza è la più grande opera collettiva mai costruita, nel tempo e nello spazio. Eppure, ancora, se la conoscenza umana è una sfera che si espande nell’ignoto, con l’aumentare della sfera aumenterà anche la superficie della sfera a contatto con l’ignoto. Più sappiamo, più sappiamo di non sapere.

L’essere più complesso

Un àmbito di cui sappiamo pochissimo sono gli esseri umani, l’oggetto più complesso dell’universo conosciuto. Ci sono tantissime cose che non sappiamo degli esseri umani. Su come funzionano, come pensano. Stiamo appena iniziando a scoprire qualcosa di noi – di come funzioniamo, di come interagiamo – ma siamo al primo balbettio.

Per questo, nessuno scienziato o persona razionale esclude l’irrazionale dalle nostre vite. Letteratura, psicologia, musica, arte hanno piena dignità intellettuale anche se non possiedono (o non abbiamo ancora scoperto) leggi comparabili a quelle fisiche. Le emozioni, i desideri, i sentimenti umani sono reali tanto quanto un atomo: entrambi sono invisibili e poco misurabili. Magari con contorni ancora vaghi, ma sono concetti utili da usare.

Nel nostro modello di realtà, però, non tutti i livelli sono uguali: in alcuni, è intrinsecamente più difficile dire qualcosa di solido, di “vero”, in maniera paragonabile alla fisica o alla matematica. Non è un caso che ci siano varie scuole psicologiche o psicanalitiche, per esempio. Fra cinquant’anni, forse, ne sapremo di più, potremo guardarci indietro e capire meglio cosa era vero e cosa no.

Lo stesso accadrà con la fisica (non è che ci sia poi questa chiarezza cristallina sulla meccanica quantistica o in cosmologia, abbiamo tanto da capire). Ora, è davvero così scientista dire che esistono però visioni dell’universo più “vere” di altre? Magari discutiamo prima insieme di cosa voglia dire “vero”, ma secondo me no. Non tutti i modelli della realtà sono equivalenti. E a volte ci sono dei conflitti.

Il pensiero magico

Repubblica e Corriere della Sera hanno pubblicato nelle scorse settimane le interviste a due astrologi – a pensar male, costruendo ad arte il seme di una polemica che poi puntualmente è esplosa i giorni seguenti sui social. Quando un astrologo su un grande quotidiano nazionale, nelle pagine culturali, permette previsioni sulla realtà in base ai compleanni, sta dicendo una sciocchezza (tra l’altro, vorrei far notare un cortocircuito logico sempre presente in questi casi: il ruolo del “profeta”, nelle pseudoscienze o nelle teorie complottiste, è sempre affidato a un ex scienziato, per dare “autorità” alla profezia).

La scienza ha da molto tempo stabilito che i moti di corpi celesti lontani miliardi di chilometri non possono influire sulla vita delle persone. Che gli oroscopi non funzionino è indiscutibile: ma è indiscutibile anche che moltissime persone ancora ci credono, e che lo stesso atto di crederci cambia la loro vita, a volte realizzando “a posteriori” gli oroscopi stessi.

Possiamo chiamarlo effetto placebo, o profezia autoavverante, o iperstizione, come volete: è un meccanismo psicologico abbastanza conosciuto, la medicina lo conosce e ne tiene conto durante i suoi esperimenti. A volte basta credere qualcosa perché questa, in qualche modo, accada.

L’astrologia, la storia dei simboli, i miti, le religioni sono sempre esistiti e sempre esisteranno. Sono discipline che hanno accompagnato la storia dell’uomo, e lo faranno ancora per molto tempo. Al centro, molte di queste hanno un nucleo che possiamo definire “pensiero magico” che, al contrario di quello scientifico, pensa di poter modificare la realtà (e non solo la mente umana) secondo pensieri e desideri personali, confondendo spesso cause ed effetti.

Che il “pensiero magico” faccia bene o meno all’umanità è un discorso enorme e spinosissimo. Ok, magari gli oroscopi non funzionano: ma che diritto ho io di andare a fare il Talebano razionalista e rovinare quello che spesso per le persone è un divertimento, o un innocuo passatempo escapista? A volte il pensiero magico ci permette di immaginare nuovi modelli della società, più comunitari ed egualitari. A volte è il contrario.  Da qui a parlare di libertà religiosa il passo è brevissimo, quasi impercettibile. Ma viviamo in tempi complicati, tempi di pandemia.

Lo storico dell’economia Carlo Cipolla divenne famoso al grande pubblico con un libretto che si chiamava Le leggi fondamentali della stupidità umana. Cipolla definiva una matrice in cui le azioni di una persona venivano analizzate su due assi: vantaggiose o svantaggiose per sé, vantaggiose o svantaggiose per gli altri.

Ecco, una buona linea guida, per iniziare, potrebbe essere questa: se il pensiero magico è dannoso per qualcuno e per le persone che gli stanno intorno, allora abbiamo un problema.

Le due culture

Personalmente, mi piacerebbe molto una classe dirigente, e intellettuale, più versata nelle scienze, più a proprio agio con strumenti matematici e statistici, con competenze di fisica, chimica, biologia. È una lacuna che possiamo far risalire all’influsso di Benedetto Croce e Giovanni Gentile sulla cultura e sull’educazione italiana.

Fra politici e filosofi, non si sa chi legga peggio i numeri e i dati relativi al Covid, stirandoli e facendo confusione fra piani molto diversi. Una cosa è parlare di etica, un’altra cosa di statistica.  La scienza ha metodi che comprendono ipotesi e test, e cerca sempre di verificare, collettivamente, ogni sua affermazione: cosa che in filosofia, semplicemente, non è possibile. Quindi, sì: in determinati contesti, i piani non si possono confondere. Le opinioni di tutti non sono equivalenti.

Questo non significa che esiste il Vero da una parte e il Falso intorno.  Bisogna certamente comprendere le ragioni per cui le persone sposano certe visioni “magiche” del mondo, avulse dalla realtà dei fatti. Allo stesso tempo, bisogna trovare il modo di agire, quando queste visioni del mondo fanno danno ai diretti protagonisti, alle persone attorno a loro, alla collettività in generale.

Capire un negazionista del Covid non significa giustificare l’ideologia No-vax. Sono due piani molto differenti. Come non dobbiamo essere scientisti – cioè credere che la scienza tutto possa e tutto spieghi (anch’esso, nel suo modo particolarissimo, pensiero magico) – non dobbiamo cedere al relativismo assoluto per cui ogni opinione sia eguale, quando si parla di certi argomenti.

Soprattutto, ripeto, se questa opinione ha conseguenze anche molto gravi sulla salute delle persone.

Né scientisti né stregoni

Non vorrei che si dimenticasse che la scienza, con tutte le sue lacune, è una narrazione condivisa e condivisibile. Ha il pregio di convergere su un modello unico. A parte rare eccezioni, funziona allo stesso modo in ogni parte del mondo e dell’universo, oggi e centomila anni fa. È un linguaggio che abbiamo elaborato per scoprire insieme la realtà, o almeno un modello della realtà. Possiamo vedere l’insieme delle conoscenze scientifiche come la più grande opera collaborativa dell’umanità.

Ora, avere una visione della realtà sommariamente condivisa è piuttosto importante, per la vita collettiva. La scienza ci aiuta enormemente in questo.

Non è certo l’unico strumento che abbiamo, ma rimane imprescindibile.

Bisogna altresì riconoscere che la scienza è un’attività umana, e quindi per definizione imperfetta, con i suoi fallimenti, vicoli ciechi, e idee sbagliate. Suscettibile agli ego degli scienziati (uso il maschile non a caso…), agli umori delle mode e degli investimenti privati.

Un esempio se volete piccolo: come mai da due anni sentiamo parlare soltanto sempre gli stessi virologi? Siamo in un’epidemia, sarebbe meglio sentire qualche epidemiologo. Anche qui, evidentemente, qualcosa è successo, fra i media e qualche professore un po’ vanesio. Tutto questo non ha nulla a che vedere con la scienza, o meglio: dobbiamo imparare a far rientrare anche questo nella scienza, nella sua comunicazione, nel suo rapporto con la società.

Non dico certo cose nuove: ogni comunicatore della scienza che conosco le ha studiate approfonditamente e scuote la testa a ogni “blastata” sui social da parte dei professoroni a qualche improvvido no vax.

Dobbiamo imparare che la complessità è tenere tutto insieme, e che le “due culture” farebbero meglio a parlarsi fra di loro, e pure in fretta.

Sposare la complessità non significa affatto “virologi al potere”. Ma proprio il contrario: meno virologi e più epidemiologi, più psicologi, più sociologi, più politici capaci di comprendere diversi linguaggi, per prendere decisioni migliori per la collettività.

La complessità del nostro mondo non potrà far altro che aumentare, ed è giunta ora che ci attrezziamo degli strumenti teorici per affrontarla.

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