Ayahuasca salvaci tu? È il suo momento. Se per la controcultura degli anni Sessanta e Settanta le star erano l’Lsd e l’Oriente, oggi chi cerca un modo diverso di stare al mondo guarda a sud, all’Amazzonia, agli sciamani. E all’ayahuasca. Nome quechua per indicare sia una pianta, “la liana dei morti” (capace di mettere in contatto con il mondo degli spiriti, degli antenati), sia la bevanda di cui è l’ingrediente principale: un infuso dagli effetti psichedelici utilizzato da decine di gruppi di nativi dell’area dell’Amazzonia occidentale e del bacino dell’Orinoco.

A questo uso tradizionale e millenario dell’ayahuasca, oggi si sono aggiunti quello terapeutico (per superare ansia, depressione o disturbi post traumatici da stress), quello cerimoniale (nelle nazioni di cultura occidentale) e quello religioso. A partire dagli anni Trenta del Novecento, infatti, attorno all’ayahuasca sono nate religioni sincretiche come il Santo Daime e la União do Vegetal.

Ed è questo “dio liquido” che (forse) potrebbe aiutare noi occidentali a ripensare il nostro rapporto con la natura, con l’ego, con la morte. Insomma think different per davvero, non per comprare uno smartphone.

André van der Braak, docente di filosofia comparata delle religioni alla Vrije Universiteit di Amsterdam, è appena intervenuto su questo tema nel convegno “La materialità all’intersezione tra ecologia e studi religiosi”, organizzato a Venezia dalla Fondazione Giorgio Cini. Ha passato una vita a studiare la filosofia buddista e il suo passaggio in Occidente e si è interessato all’ayahuasca dopo aver notato un cambiamento nei suoi studenti: «Prima il loro ideale era il viaggio zaino in spalla, in India o Nepal, dove speravano di incontrare un guru, fare meditazione e raggiungere l’illuminazione. Oggi, invece, vogliono andare in Perù o in Brasile, diventare tutt’uno con la natura, incontrare uno sciamano, bere l’ayahuasca. Perciò mi sono interessato allo studio di questa nuova spiritualità: un modo nuovo di essere religiosi, di fare religione» (e ne ha scritto nel libro Ayahuasca as Liquid Divinity: an Ontological Approach).

Van der Braak parla, infatti, di religione “ecodelica”, crasi di “ecologia” e “psichedelica”, un mix che ha affascinato le nuove generazioni, sempre più sensibili ai temi legati all’ambiente e alla ricerca di nuovi modi di vivere e pensare: «L’effetto più interessante dell’ayahuasca è insegnare alle persone a connettersi completamente con il mondo e la natura. È un grande cambiamento».

C’è anche una dimensione collettiva (insieme si prepara la bevanda e la si assume) che si contrappone all’individualismo (e quindi alla solitudine): «È importante il rituale, la cerimonia, che noi occidentali consideriamo vecchio, morto, passato. Nel Santo Daime, invece, il rito è vivo e anche trasformativo. E, affinché avvenga, la trasformazione ha bisogno degli altri. In occidente abbiamo un senso del sé molto individualista, ma, quando le persone bevono l’ayahuasca, la loro esperienza di sé diventa più “porosa”, per usare una parola del filosofo canadese Charles Taylor: i confini tra sé e l’ambiente svaniscono. Non è una guarigione individuale, bensì quasi una guarigione di gruppo».

Rapporto con la morte

Oltre all’ipertrofia dell’ego, l’ayahuasca tocca un altro nervo sensibile in noi occidentali: il rapporto con la morte. Non a caso è anche chiamato la “piccola morte”: «Gli studiosi parlano di “dissoluzione dell’ego” quindi dissoluzione del senso di sé. È uno shock ontologico: idee e nozioni di cosa è reale e cosa no, all’improvviso sono messe in discussione». È un po’ quello che sta facendo la fisica quantistica mettendoci di fronte a un mondo nuovo che ci chiede un pensiero nuovo per essere compreso: «C’è una forte corrispondenza con la fisica quantistica: in occidente, da quattrocento anni, da Copernico e Cartesio, siamo abituati a una visione dualistica, che separa naturale e soprannaturale, corpo e mente, umano e non umano. Oggi questo mondo si sta sgretolando da ogni parte: dalla fisica alla biologia, dalla filosofia alla religione. La religiosità dell’ayahuasca ha una nozione di divino in cui non c’è distinzione tra naturale e soprannaturale: tutto è connesso».

Insomma, i segnali (leggi: i disastri), a volerli vedere, a volerli ascoltare, ci stanno dicendo tutti la stessa cosa: il nostro modo di pensare, e quindi di vivere, non è più, per usare un eufemismo di gran moda, “sostenibile”: «Il filosofo Bruno Latour, nel suo libro La sfida di Gaia, parla della crisi climatica e dice che l’unica via d’uscita non sono le nuove tecnologie: in realtà abbiamo bisogno di un nuovo tipo di religiosità. Una religiosità “gaiana”, che ci permetta di connetterci con Gaia, con la natura. Per questo, sostengo che le pratiche dell’ayahuasca possano aiutarci a stabilire questa nuova relazione con Gaia, essenziale se vogliamo trovare una soluzione alle tante crisi che affrontiamo. Dobbiamo cambiare a un livello profondo e acquisire questa capacità ecodelica. Certo, perché il cambiamento avvenga ci vorrà tempo, come ce ne volle ad accettare le idee di Copernico quattrocento anni fa».

Il cambiamento passa, ad esempio, dalla necessità, sempre più sentita, di abbandonare lo sguardo colonialista con cui, anche inconsciamente, tendiamo a osservare il resto del mondo dall’alto di una presunta superiorità occidentale: «Per rispettare la cultura da cui proviene l’ayahuasca dovremmo innanzitutto coinvolgere nel suo studio chi appartiene a quella cultura e prendere davvero sul serio le loro conoscenze e il loro vedere il mondo come una rete in cui tutto è collegato e in cui esistono esseri più che umani, esseri invisibili. Noi occidentali pensiamo subito che stiano parlando di spiriti, di cose che non esistono, come credere a Babbo Natale. È un modo di pensare arrogante e colonialista: dovremmo, invece, fare uno sforzo e capire che, quando gli indigeni parlano di “spiriti”, non si riferiscono a esseri soprannaturali. Questa è l’interpretazione dei missionari che, nei secoli passati, sono andati in Sudamerica e hanno ridotto tutto a “superstizioni”. È un pregiudizio».

Cosa fare dunque? «Dobbiamo invece arrivare a una nuova filosofia che trovi il modo di dare senso a un mondo che includa anche ciò che chiamiamo “spiriti”. È ciò che stava cercando di fare Latour, che li chiama “esseri di religione” o “esseri di trasformazione”, che esistono ma in modo diverso rispetto a una sedia o un tavolo. E forse dobbiamo anche pensare allo sciamano non come a una sorta di sacerdote, ma come a un ecologista che gestisce le relazioni delle persone con gli altri esseri presenti in natura (che possono anche essere energie invisibili)».

Traduzione

Riguardo al timore che il contatto con la cultura occidentale possa distruggere tutto, van der Braak risponde guardando le cose dall’altezza concessagli dallo studio della storia: «Per esempio, c’è una forte tendenza alla medicalizzazione dell’ayahuasca: ne vorrebbero fare una pillola, da assumere su prescrizione medica, risparmiandosi tutta la cerimonia. Ecco, un pensiero del genere non solo non è rispettoso verso le culture da cui proviene l’ayahuasca ma trascura l’importanza dell’aspetto collettivo e del cerimoniale nel processo di guarigione».

E trascura anche l’aspetto psicologico, la motivazione interiore, l’ambiente in cui avviene l’esperienza, tant’è che viene da chiedersi se, per godere degli effetti dell’ayahuasca, non sia essenziale essere circondati dalla giungla amazzonica in cui è nato: «Sono domande che ci siamo già fatti in altre occasioni: è possibile portare lo yoga dall’India all’occidente? E il buddismo? Qualcosa inevitabilmente si perde nella traduzione. Alcuni dicono che bisogna rimanere fedeli alla pura tradizione originale, ma, da accademico e storico, posso dire che la tradizione pura e originale non esiste: le tradizioni cambiano continuamente. Anche il cristianesimo e il buddismo si sono trasformati nel corso della loro storia. Succederà anche con la religiosità dell’ayahuasca. Anzi sta già succedendo».

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