Sul mobile dell’ingresso dove accumulo le cose da fare – bollette da pagare o pagate da archiviare, eterno memento della mia inadempienza – c’è una videocassetta con un’etichetta scritta a mano: Giulia - Estate 1996. Credo sia l’unico documento video della mia infanzia, ma non l’ho mai visto perché non possiedo un videoregistratore, forse proprio dal 1996. È lì perché vorrei portarla a digitalizzare, ma come molte cose facili della vita mi è sempre sembrata un’impresa impossibile. In compenso ci sono molte foto, di me bambina. La gran parte è raccolta in un grosso album con la copertina d’argento che ha le dimensioni e il peso specifico di uno spartitraffico di cemento, e che mia nonna conserva gelosamente a Bologna.

Quando c’è bisogno di farsi due risate – cioè spesso, in una famiglia in cui nessuno dorme senza benzodiazepine – lo tiriamo fuori e ripassiamo: il Natale del ’98, in cui mi presentai a cena truccata come una baldracca in disarmo; l’estate del ’97, in cui sfoggiavo un taglio di capelli casalingo per il quale avrei potuto denunciare i miei genitori al Telefono azzurro; il giorno del battesimo, immortalata con il culo al vento e un sigaro in mano (un’altra occasione persa, per il Telefono azzurro). Tutte le volte ridiamo come se non le avessimo mai viste, ma contestualmente vengo anche minacciata: se un fidanzato passa di lì sarà sottoposto alla visione forzata di tutte e ottocento le fotografie, in sottofondo la telecronaca di mia zia che non potrà non raccontare di quella volta che me la sono fatta addosso aspettando Babbo Natale.

Bambini di oggi

L’umiliazione è parte intrinseca del passato di tutti. E tra i vantaggi di essere nati prima dell’avvento dei social c’è anche la quieta certezza che la tua infanzia è custodita da qualche parte in un mobile di noce ed è trasmessa al massimo per via orale da persone che a un certo punto della vita ti hanno pulito il sedere. Molti bambini di oggi non hanno questo privilegio. Quando apro Instagram i bambini sono ovunque: figli di persone che conosco, figli di persone che non conosco, figli famosi di genitori famosi, figli famosi di genitori anonimi, neonati che fatturano molto più di me. Alcuni li seguo attivamente per ragioni che mi sfuggono, ma posso forse ricondurre alla parte del mio cervello annebbiata dall’orologio biologico.

Tra questi c’è il piccolo Kobe (@kobe_yn, 2,4 milioni si follower), che non spiccica una parola ma prepara una ricetta al giorno (con l’aiuto della madre, ovviamente, che non si è ancora stufata di passare lo straccio ogni volta che Kobe rovescia qualcosa mancando la ciotola di mezzo metro). C’è Brody Schaffer (@bossbabybrody, 514mila follower) che ama la danza e si esibisce con l’attitudine aggressiva di una drag queen e la sicurezza espressiva di Liza Minnelli. C’è Samson the Goldendoodle (@samsonthedood, 1 milione di follower) che in realtà è il profilo di un cane, il quale però compare sempre accompagnato da un infante dall’andatura instabile con cui condivide bagni e pisolini. E come non citare il piccolo Leone Lucia Ferragni, il nostro Royal Baby, che ormai mi sembra di conoscere molto meglio di alcuni miei cugini di secondo grado e che proprio quando cominciava a risultarmi indifferente – penso che mi verrebbero a noia anche i miei stessi figli, se li seguissi con la frequenza e l’attenzione morbosa con cui guardo le stories dei Ferragnez – è stato raggiunto dalla piccola Vittoria, la cui nascita pochi giorni fa ha avuto l’esposizione mediatica di un nuovo allunaggio: su Twitter è stata creata una pagina intitolata “Aggiornamento Orario Gravidanza Ferragni” (@OrarioChiara) e la neonata è stata presentata al mondo con una serie di scatti ospedalieri, in cui compare ancora coperta di varie sostanze organiche come il velociraptor di Jurassic Park.

Il potere della memoria

La cosa che tutti questi minuscoli individui hanno in comune è l’ignoranza. Non hanno deciso loro di essere lì, nei telefoni di centinaia, migliaia, milioni di persone. Sono piccoli pagliacci inconsapevoli che cresceranno senza alcun controllo sui propri ricordi e non potranno contare neanche sul potere selettivo della memoria, perché sarà stato tutto accuratamente documentato e potranno ripercorre gran parte dei loro primi anni di vita come in una serata diapositive destinata a non finire mai. Che non mi sembra un problema grave, di per sé, è solo uno dei tanti motivi per cui potremmo ritrovarci a pagare lo psicologo ai nostri figli, una cosa a cui penso ogni volta che Leone parla di sé in terza persona. Chissà cosa ne direbbe Susan Sontag – morta strategicamente l’anno in cui veniva fondato Facebook – che nel saggio Sulla fotografia (1977, pubblicato in Italia da Einaudi) scriveva: «Fotografare una persona equivale a violarla, vedendola come essa non può mai vedersi, avendone una conoscenza che essa non può mai avere; equivale a trasformarla in oggetto che può essere simbolicamente posseduto. Come la macchina fotografica è una sublimazione della pistola, fotografare qualcuno è un omicidio sublimato, un omicidio in sordina, proprio di un'epoca triste, spaventata». Un’opinione nettissima – di quelle che mi fanno desiderare di essere una persona completamente diversa – simile alla visione di alcune tribù di nativi americani, che attribuivano alla fotografia la capacità di rubare l’anima ai soggetti, e che ben si applica alla più triste e spaventata delle epoche, cioè la nostra.

Anche meno, direte voi. Certo: il mondo in cui viviamo è sottoposto a distorsioni ben più allarmanti, e molti di questi bambini sovraesposti magari cresceranno meglio di quelli che su Instagram vengono censurati da una grossa emoticon con gli occhiali da sole. Vittoria Ferragni, per esempio, a due giorni di vita già sorrideva compiaciuta (avrà sentito il fruscio del fondo fiduciario). Sta benissimo, si calmi chi può. Però che Adam Mosseri, capo di Instagram, copra le facce dei suoi figli è una cosa che un po’ mi dà da fare.

Come molte cose che riguardano la nuova normalità plasmata dai social network non sappiamo bene come si andrà a finire, signora mia. In questo caso, se volessimo analizzare dei precedenti, dovremmo forse risalire al Club di Topolino (che ha sfornato alcuni dei personaggi più tragici della contemporaneità, ma non solo) o ad altri casi di child stars che hanno raggiunto la fama ben prima della pubertà. Gli esempi non sono molto incoraggianti, in effetti: Judy Garland, Michael Jackson, Britney Spears, Macaulay Culkin, Lindsay Lohan, solo per citare alcune delle spirali discendenti più memorabili, si sono tutti barcamenati tra dipendenze, disturbi e tagli di capelli che hanno fatto la storia. Dove eravate l’11 settembre, durante l’attacco al World Trade Center? E dove eravate quando Britney si rapò a zero nel 2007?

Altre preoccupazioni

Va detto che è anche pieno di gente che ha avuto successo in tenera età ed è cresciuta perfettamente normale, per quanto possa essere normale qualcuno che sceglie di fare l’attore di lavoro. Ed è pieno di scoppiati che non hanno avuto neanche i proverbiali 15 minuti di gloria. Foto o non foto, fama o non fama, sospetto che venire su sani di mente sia in buona parte una questione di fortuna e spostamenti d’aria, e chi mette al mondo una creatura oggi ha solo qualche tema in più su cui interrogarsi. Ma che ne so io, alla mia età ormai i figli li fanno solo i ricchi e gli incoscienti, e io non sono nessuna delle due (ho solo due amiche che hanno procreato: una è un’ereditiera, l’altra me la ricordo qualche anno fa in pista al Ministry of Sound a ciucciare l’Md dalle dita di uno sconosciuto). Prima delle foto su Instagram abbiamo altri motivi di preoccupazione, tipo l’innalzamento del livello del mare e ripensare il nostro guardaroba in funzione del colore infame delle mascherine chirurgiche.

L’esperienza più vicina alla maternità che io abbia avuto è stata un paio di anni fa, quando finii per sbaglio nella newsletter di un asilo di Centocelle, al posto di una mamma mia omonima. Nonostante avessi segnalato l’errore, continuavo a ricevere un gran numero di mail con oggetto «Nuovo caso di bocca mani piedi nella classe dei bimbi grandi». Ovviamente non avevo idea di cosa fosse un caso di bocca mani piedi, ma mi sono informata: è una malattia esantematica con un nome estremamente didascalico. Dopo un breve momento di angoscia realizzavo che non mi riguardava, non ce l’avevano davvero con me. Tiravo un sospiro di sollievo e riscoprivo un gusto nuovo per la mia vita priva di bimbi grandi o piccoli o medi, coperti di pustole. E pensavo a Giulia Pilotti, quell’altra, con un po’ di pena. Le uniche pustole di cui devo preoccuparmi, per fortuna, sono ancora le mie. Tutti i miei obblighi sono ammonticchiati sul mobile d’ingresso, liberi di essere ignorati.

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