So già cosa farò il 30 gennaio. Riguarderò tutte in fila le sette ore e 48 minuti di The Beatles: Get Back, la docuserie di Peter Jackson su Disney+ che ho già degustato a tappe nel corso dell’ultimo mese. È il vero evento monstre che ha illuminato le piattaforme in questa fine anno. Ed è un bel modo per celebrare il cinquantatreesimo anniversario del concerto lampo sul tetto, al numero tre di Savile Row, che fu l’ultima, epica esibizione live dei quattro di Liverpool.

Il 1969 è anche l’anno di Woodstock. Chissà se Martin Scorsese, che collaborò giovanissimo al documentario di Michael Wadleigh, si inventerà un modo per farci rivivere quei tre giorni d’agosto, come se a Bethel ci fossimo stati davvero. Dovrebbe almeno raddoppiare i 184 minuti del film premiato con l’Oscar nel 1971. Perché il regista de Il Signore degli Anelli, lavorando sulle 60 ore di girato di Michael Lindsay-Hogg e le 150 ore di registrazioni audio, fa proprio questo: cancella il triste riassuntino documentario che fu Let it Be, il film, e ti reclude, letteralmente, con i tardo-ventenni Paul, John, George e Ringo, nella prigione creativa vissuta insieme a congiunti e staff dal 2 al 30 gennaio.

Un pugno ridicolo di settimane che produsse assai più del materiale per il nuovo album, anche se fallì l’obiettivo iniziale di uno show tv e di un concerto megagalattico nelle location assurde ipotizzate dal regista: l’anfiteatro di Sabratha in Libia, una nave da crociera, perfino un orfanotrofio.

Non è solo per nostalgia e ansia di celebrazione che la maratona tv va rivissuta in apnea, senza interruzione. La strabiliante tecnica di ricostruzione di Jackson, che amo quasi quanto i Beatles confesso, quella capacità già rivelata facendo rivivere - in They Shall Not Grow Old - le trincee della prima guerra mondiale, consente una percezione inedita delle dinamiche interne al gruppo.

McCartney e Lennon

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I Fab Four, sull’orlo dell’addio, non sono quattro ma 2+2. Da tempo. Da sempre? Che siano le coppie, tendenzialmente, a fare storia? Non parlo di maschio-femmina, marito-moglie, padre-madre. Parlo di coppie artistiche.

C’è una corrente elettrica che salda visibilmente Paul McCartney e John Lennon e aggancia i loro sguardi quando intonano, per esempio, Two of Us. C’è una sincerità da fratelli che li fa discutere senza peli sulla lingua delle frustrazioni di George Harrison, che ha piantato in asso le prove.

Non sanno che Lindsay-Hogg ha spudoratamente nascosto un microfono nella pianta sul tavolo che li separa. Per i beatlesiani mai pentiti è un momento di verità, terribilmente indiscreto, in violazione dell’abc della privacy, da brividi.

La mortificazione continua di Harrison, contesta John a Paul, «ha provocato una ferita che si è infettata», e «non gli abbiamo dato nulla per medicarla». Paul è la locomotiva, una incontenibile macchina da musica, non vuole «essere il Boss», ma non discute, impone e decide.

Solo John è un suo pari. «Siamo come due amanti», dice Lennon in un altro momento. «Sì», è la risposta. E per tutto il tempo, mentre si lavora, si cazzeggia, si strimpellano a tempo perso Dylan (I Shall be Released) e Chuck Berry (Johnny B. Goode, Rock and Roll Music) e molto altro, Yoko Ono è piazzata in pianta stabile tra i due, sfinge aliena e simbolica a spezzare il flusso, il cordone ombelicale, la traiettoria degli sguardi.

Sono prevenuta? Sì. Passerò per antifemminista? Pazienza. Non sto facendone il mio “capro respiratorio”, è un fantastico svarione di Gassman in Audace colpo dei soliti ignoti, ma di sicuro sullo strappo ha messo un bel carico.

La struttura binaria fa miracoli

L’altra coppia, George Harrison e Ringo Starr, è subalterna - cosa assai brutta e ingiusta a vedersi - ma solidale. Quando Ringo accenna al pianoforte Octopus Garden è George che lo aiuta a elaborare la canzone, anche se le sue proposte e le sue obiezioni vengono sempre maltrattate. Ringo dirà, molto più tardi, che solo Gorge lo ha sempre aiutato a “chiudere” i suoi pezzi.

Doppia coppia, dunque. Con Paul che a George, in difficoltà sul testo di Something, suggerisce la sua personale tecnica storica: mettere parole a caso, conta solo la metrica. Chi non sa che Yesterday era partita come Scrambled eggs, uova strapazzate? «Appoggiaci per ora cauliflower», cavolfiore, dice perciò a George: «Something in the way she moves/ attracts me like a cauliflower...».

È la struttura binaria il segreto dei miracoli? Quando il duo creativo di Checco Zalone con Gennaro Nunziante si è spezzato dopo quattro film, Luca Medici è scivolato in modalità buonista, con Tolo tolo. Si stenta a credere che l’incasso italiano top del 2021 sia Me contro Te, Il mistero della scuola incantata, con la sua coppietta da edicola e da kindergarten, Sofì e Luì, che al botteghino hanno fatto cinque milioni, il doppio di un kolossal nostrano come Freaks Out.

Sì, certo, siamo davanti a un crollo pandemico del 73 per cento delle presenze e del 71 per cento degli incassi, rispetto alla media del triennio 2017-2019, ma Luigi Calagna (Luì) e Sofia Scalia (Sofì) saliranno sul podio dei David di Donatello, sia pure nella casella commerciale, da poco introdotta, del David del pubblico. A buon diritto nel Gotha dorato della produzione italiana, signore e signori, anche se i loro film, tecnicamente, sembrano vietati ai maggiori di 14 anni. Ancora: i comici Pio e Amedeo hanno debuttato l’1° gennaio col loro primo film, Belli ciao, direttamente in testa classifica, superando un blockbuster come Matrix Resurrections.

Ficarra e Picone

Due vale molto più di 1+1. Quest’anno la coppia storica Ficarra e Picone, campione d’incasso della commedia pensante agli sgoccioli dell’era pre Covid, si è sdoganata dalla carestia della sala e ha scommesso sulla serialità. La loro prima miniserie, Incastrati, è approdata su Netflix il 1° gennaio. Permettendosi il lusso intelligente di ironizzare sul fenomeno stesso: la dipendenza fanatica da serie tv.

Idea forte che ha sfondato in Italia, e che a fine mese passa doppiata in tutti gli altri mercati-paese. Salvo Ficarra fin dall’inizio della vicenda è “incastrato” da una serie fiume di pura fantasia, ma trash come la media dei prodotti su streaming, che si intitola The touch of the killer e che, gli ripete invano sua moglie, «gli spappola il cervello».

Non solo: gli fa trascorrere notti da binge watcher sul divano di casa e gli fa ossessionare il cognato Valentino, anche suo socio nell’impresina di riparazioni tv, con i misteri e le trame degli eroi di finzione. Da questa irriverente premessa, comicamente irriverente verso il format, parte una catena di equivoci e disastri che sono il pretesto per fare satira sulla cupola mafiosa, sulle bustarelle concatenate della pubblica amministrazione, sui luoghi comuni di tanta retorica radiotelevisiva, e molto altro.

I cinefili possono rintracciare citazioni puntuali dal cinema di Pietro Germi (il nome Ascalone e certe battute vengono dritti da Sedotta e abbandonata) e godersi le spiritose figurazioni di Tony Sperandeo e Leo Gullotta come di buone attrici di teatro come Mary Cipolla (la mamma di Valentino) e Rossella Leone (la testimone di Geova).

Come si fa a partire dai Beatles per approdare a Ficarra e Picone? Sono le vie misteriose dell’algoritmo, che impone nuove contiguità. La nuova semantica democratizza le vecchie gerarchie. Nelle schermate dei nuovi colossi dell’immaginario Quarto Potere conta come Natale in India. È un disvalore. Ma anche no: i Beatles sono portatori sani di musica alta come Fic e Pic lo sono, a loro modo, di comicità alta.

Fanno cinema civile, riprendendo percorsi remoti della commedia italiana, ma di soppiatto. Riproducono il dualismo di Stanlio e Ollio (ancora il gioco delle coppie!), l’ingenuo e il cinico, la poesia e la prosa, ma senza fermarsi agli standard. La nuova tappa è il film che Roberto Andò ha scritto per e su di loro. Get Back, l’appello a tornare indietro, è sempre sbagliato. A meno che non lo cantino i Beatles.

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