JFK, di Oliver Stone, Z-L’Orgia del potere di Costa-Gavras, in parte Anni di piombo di Margarethe Von Trotta. Non sono poi tanti, nella storia del cinema, i film che hanno avuto l’ambizione e la capacità di mettere sotto processo una classe politica. Marco Bellocchio, consultato, aggiunge Il Divo di Paolo Sorrentino. Ma la sensibilità politica di Bellocchio, anche ma non solo per questioni anagrafiche, è molto diversa da quella di Sorrentino.

Esterno Notte è la prima avventura seriale di Marco Bellocchio che torna a misurarsi, quasi vent’anni dopo Buongiorno notte, con il trauma incancellabile del sequestro e della morte di Aldo Moro. È agli onori di Cannes 75, al secondo giorno di Festival, nella sezione Première. La prima parte in Italia è già in sala da oggi con Lucky Red, la seconda uscirà il 9 giugno. In autunno i sei episodi saranno trasmessi su Rai 1. E fa sorridere in prospettiva l’idea che sotto la sigla Rai Fiction, che figura nel team produttivo, vada in onda un prodotto così inconciliabile con gli standard cari alla tivù pubblica, per non dire delle private.

Da godere in sequenza

Tecnicamente “serie”, ma opera cinematografica a tutti gli effetti, Esterno notte andrebbe goduto in sequenza. Cinque ore e mezzo non sono poche, ma è un privilegio. E andrebbe goduto, da chi come me in quel 1978 era già adulto e pensante, facendo tabula rasa di memorie e retaggi ideologici.

La folgorante immersione umana di Fabrizio Gifuni nella ricostruzione artistica di Moro è un ausilio cruciale. Racconto emotivo, più che politico, secondo Stefano Bises – sceneggiatore insieme al regista, a Ludovica Rampoldi e a Davide Serino – è un film che scava di fatto nell’essenza profonda della politica, in «quell’evidente silenzio» di cui parlava il presidente della Dc in una delle sue ultime lettere al fedele Benigno Zaccagnini. Un silenzio che è diventato, nel corso degli anni e delle generazioni, rimozione collettiva di un intero paese. Le domande di Fabrizio Gifuni, che aveva lavorato per il teatro sulle carte di Moro, si sono intrecciate a quelle di Bellocchio: due magnifiche ossessioni in cortocircuito.

Rielaborato lungo due anni di riscrittura, il racconto di quei 55 giorni senza respiro segue uno schema di sperimentata efficacia narrativa: ogni episodio riparte da zero, proponendo i punti di vista degli uomini e delle donne più strettamente legati ai destini di un politico colpevole di aver guardato troppo avanti per i suoi tempi. In un’Italia lacerata dallo scontro politico tra gli ultimi fuochi delle utopie e il monolite del potere democristiano, con Moro impegnato nell’estrema battaglia interna per «includere quel 33 per cento di italiani che non hanno votato per noi», ognuno, dal “figlio” Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi) al “padre” Paolo VI (Toni Servillo), dai familiari trainati dalla fierezza di Eleonora Moro (Margherita Buy) ai brigatisti Adriana Faranda e Valerio Morucci (Daniela Marra e Gabriel Montesi), vive a partire da quel 16 marzo una tragedia diversa. Ma è proprio questo confronto a illuminare sui retroscena della linea della fermezza. Figura sbiadita per la rigidità degli argomenti, nella versione Bellocchio, Enrico Berlinguer non è un personaggio chiave. Lo è, ovviamente, Giulio Andreotti, incarnazione del Potere su cui Bellocchio si era già esercitato con sottile perfidia ne Il Traditore.

Il potere dei simboli

Il sogno di Aldo Moro uscito vivo dalla prigionia, che era il finale di Buongiorno notte, qui si ripete all’inizio e alla fine del film. Ma nello sguardo che rivolge al trio schierato davanti al suo letto d’ospedale – Andreotti, Cossiga e Zaccagnini – c’è una condanna implacabile. È un miraggio a servizio di una domanda: cosa sarebbe accaduto nell’universo parallelo di un diverso epilogo?

«Mi dimetto dalla Dc, rinuncio a tutte le cariche»: Moro lo aveva scritto, in quei giorni. E in un altro indecifrabile passo ringraziava le Br «a cui devo la salvezza della vita e la restituzione della libertà». Non c’è immaginazione capace di partorire un thriller storico di questa portata, con la sua rete di trame, pressioni, speranze, false piste, incoscienza e follia. Ma l’immaginazione può materializzare incubi, sogni, sensi di colpa di chi ha scelto di chiudere gli occhi. C’è Macbeth dietro le ossessioni che il regista attribuisce a Cossiga. È un ministro dell’Interno che vede macchie sulle proprie mani, invisibili agli altri, paralizzato dagli occhi di Moro nel volantino Br: «Mi sta guardando».

È il potere, squisitamente cinematografico, dei simboli e delle allegorie. Logorato dalla malattia, Paolo VI, che morirà sei mesi dopo, prova in camera le croci che vorrebbe portare sulla Via Crucis, tutte troppo pesanti per le sue spalle. E sogna Moro che come Cristo la porta in sua vece, isolato dalla nomenklatura del suo partito. È il linguaggio dei sentimenti che dilata i fatti, la cronaca nuda, e trasforma lo spettatore non in giudice, ma in testimone.

Il tentativo di riscatto compiuto dal Vaticano non è un’idea astratta, ma una montagna di bigliettoni, concreta, tangibile. Sulla lettera ai brigatisti per implorare il rilascio senza condizioni né contropartite, come ha imposto Andreotti, il Papa suda, si inciampa, sono parole impossibili, senza senso. Ed Eleonora “Noretta” Moro, anima di una battaglia di pietas contro tutto e contro tutti, davanti a quella missiva reagisce: «Si è arreso anche lui!»

Appartiene alla cronaca la strategia di annullare il valore morale delle prime lettere scritte da Moro dichiarandolo pazzo, mentalmente demolito dai carcerieri. Ma è rivoltante il dialogo – tanto fittizio quanto credibile – in cui il “consulente Cia” inviato dagli Usa teorizza la necessità di screditare l’ostaggio. Non dispone dei mezzi pachidermici delle grandi produzioni seriali a stelle e strisce, Marco Bellocchio. Lo scarto tra i grandi interpreti e le prestazioni-lampo dei figuranti di sfondo a volte è stridente, perché non abbiamo il vivaio di talenti freschi dei sistemi competitivi. I suoi effetti speciali sono semplicemente cervello e regia. A ottantadue anni sembra un talento ancora in crescita.

Lo sguardo sui brigatisti

Qualcuno noterà che nel corso del tempo lo sguardo dell’uomo sui brigatisti si è andato modificando. Sono figure su cui ha ragionato fin dai tempi di Diavolo in corpo, appartenendo a una generazione che di utopie politiche si è nutrita, a vent’anni, fino a farne un perno della propria esistenza. Protagonisti nel racconto di Buongiorno notte, qui i brigatisti, nella genesi del progetto, non erano contemplati, benché l’interesse per il percorso di Adriana Faranda avesse suggerito in passato al regista l’idea di un possibile film.

Ma c’è un versante del partito della trattativa con cui Bellocchio ha voluto spezzare il cieco fronte della lotta armata. C’è un ribollire di dubbi nella sua Faranda, non a caso una donna, non a caso una madre che ha sacrificato sua figlia. I suoi compagni sono sordi e grotteschi, monoliti senza domani. Lei, nei suoi incubi, vede scorrere cadaveri sulla corrente placida di un fiume. In un’opera intrisa di citazioni da schermo, Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah è la chiave per leggere la funerea Weltanschauung delle Br: non il fantasma della rivoluzione proletaria, ma morire da eroi dopo una bella strage.

Taccio volutamente della vera eroina del film, Eleonora Moro: è una sorpresa da non guastare, come l’impennata di scrittura e recitazione dell’episodio finale, come il lavoro emozionante di non-star, Paolo Pierobon, Fabrizio Contri, Gigio Alberti. Il tremendo spettacolo del Potere si è consumato. La morte ha fatto l’uovo, con un aiutino dai piani alti.

Come da esplicita richiesta dello statista, la famiglia rifiuterà i funerali di stato, che verranno celebrati comunque, il 13 maggio, senza feretro, senza il martire che non voleva essere martire. È la tragica farsa di un paese che celebra le proprie esequie. Quell’uomo, come Cristo, «doveva morire», scrive Bellocchio. Perché nulla potesse cambiare non solo nella politica, ma nella mente degli italiani.

© Riproduzione riservata