È una composizione che ha dato il nome a più di un film, talvolta anche di qualità molto discutibile. In quello di Anne Fontaine è pertinente: un biopic che ripercorre storia e ambiguità di questa partitura
Ci sono titoli incisi a fuoco nella Grande Storia delle boiate pazzesche. Nel 1984 Bolero (in Italia Bolero Extasy, tanto per renderlo più arrapante) scalò l’Olimpo della spazzatura in pellicola rastrellando ben 9 Razzie Awards, gli anti-Oscar del cinema brutto brutto: praticamente tutto il cocuzzaro. Epica impresa avvalorata da un raro punteggio 0 (Zero) sull’aggregatore di recensioni Rotten Tomatoes: pollice verso dei critici all’unanimità. Un’eccellenza, a suo modo: nella pagella di CinemaScore, su una scala a scendere da A+ a F, per buoni quindici anni nessun competitor è riuscito a fare di peggio. Una F ad honorem praticamente da record.
Bolero era il film congegnato da John Derek per fare cassa sul mito erotico della consorte Bo Derek, promossa a icona hot da Ten (Dieci), la commedia sexy di Blake Edwards che cinque anni prima aveva sbancato i botteghini, allupato maschi Alfa e Beta indistintamente e condannato ai lavori forzati le parrucchiere di mezzo pianeta. Le treccine afro – col senno di poi – non stanno proprio benissimo a tutte.
Altri Boleri
Catalogato come “film di avventura a sfondo erotico”, Bolero Extasy era una bufala di dimensioni ciclopiche che riciclava – tutta qui l’ideona – la partitura del povero Ravel già sfruttata da Blake Edwards. Mi piace ricordare che oggetto del desiderio di Bo era l’aitante torero Angel, interpretato da Andrea Occhipinti. E la ragione per cui mi piace ricordarlo è che cambiando mestiere primario (nonché evitando con cura il trash di scivoloni consimili) Occhipinti è diventato una stella fissa – forse la più luminosa – della produzione e distribuzione nostrana di qualità.
C’era già stato negli anni Quaranta un Bolero hollywoodiano con Carole Lombard, e qualche boomer potrebbe rammentare un Claude Lelouch d’annata che usurpava lo stesso titolo. Dico usurpava perché il titolo originale di Lelouch era Les uns et les autres, troppo fiacco per l’estro bislacco dei distributori italiani.
Sesso o fabbriche nel Bolero?
Nel caso di Boléro di Anne Fontaine, che sarà in sala dal 29 agosto con Movies Inspired, il titolo, per una volta, è più che pertinente. È un dignitoso biopic che ripercorre la genesi di una delle partiture classiche più popolari, più longeve e più eseguite di sempre (Frank Zappa, per dire, la venerava senza riserve) e illumina sul singolare destino del suo autore. Se piazzi un film proprio al rientro dall’esodo estivo significa che ci credi poco, e non ti aspetti di sbigliettare un granché.
Eppure la materia narrata ha risvolti intriganti. Si indaga sulla creazione artistica e sugli effetti collaterali, spesso contraddittori, delle fortune mondane. L’immediato successo di quel “crescendo” dalla melodia ipnotica – che si sviluppa su 17 minuti appena – ha consegnato alla gloria un compositore dandy ma schivo e al tempo stesso gli ha devastato la vita. «Ho scritto un solo capolavoro, e purtroppo è privo di musica», sarà lo sconsolato bilancio di Ravel «quella canzonetta inghiottirà tutti i miei altri lavori».
Composto su commissione nel 1928 come tema per balletto, il Boléro tecnicamente consiste nella ripetizione ossessiva di due temi principali – A e B – di 18 battute ciascuno, proposti da strumenti diversi, per un totale di diciotto sequenze musicali. È in sostanza un meticoloso modello matematico.
Il paradosso che fa da baricentro al film è lo scarto stridente tra l’ispirazione “industrialista” del compositore e la percezione dell’opera nella cultura di massa. Per Ravel, che volentieri si immergeva tra i suoni delle officine in attività, il Boléro è «un inno alla modernità», «una metafora del mondo meccanizzato», «la marcia del tempo che avanza». Immagina un balletto incastonato tra scenografie di fabbrica, che restituisca la ripetitività del lavoro operaio e culmini, deragliando, nell’esplosione finale, che è trance e caos.
Siamo anime aride e incolte, probabilmente, inesorabilmente prosaiche, ma nell’accezione comune quei 17 minuti stimolano fantasie di altra natura. Evocano, per i più, un galoppo di pura energia sessuale coronato dal suo bravo orgasmo trionfale. Il guaio per l’ignaro Ravel del film è che Ida Rubinstein, celebre danzatrice e mecenate russa committente dell’opera, registra da subito questa lettura e imbastisce una coreografia di sfacciata seduzione carnale.
«Siamo in un bordello?», tuona l’autore allibito davanti allo scempio, «l’avete trasformato in un baccanale, la Prostituta di Babilonia!». Replica gelida della finanziatrice, che come tutti i titolari del borsellino paga e pretende: «Cosa le manca? Ah già, la sua fabbrica! Era una civetteria bolscevica buona per quando gli operai andranno al potere!».
Va da sé che il misunderstanding, artistico e politico insieme, è malinconicamente gustoso. Tanto più perché l’uomo Ravel viene dipinto come refrattario ai piaceri della carne.
Truffaut docet
Anne Fontaine è pratica di biografie filmate (Coco avant Chanel), ha una spiccata sensibilità musicale e letteraria che la protegge dalla banalità (era suo anche il delizioso Gemma Bovery), e prende molto sul serio il lavoro e i tormenti privati del genio. Truffaut docet: il 75 per cento della riuscita del film dipende dalla scelta degli attori. Intorno al Ravel di Raphael Personnaz, star della scena teatrale francese, si muovono vedettes di punta, da Jeanne Balibar (Ida Rubinstejn) a Emmanuelle Devos (Marguerite Long, leggendaria pianista e amica fedele), da Doria Tillier (Misia, la musa amore platonico del compositore) a Vincent Perez.
La regista ha ottenuto il permesso di girare nella vera casa del musicista, Le Belvedère, a Montfort-l’Amaury. Tra quelle mura si consuma il declino neurologico che gli abbrevia la vita. Muore nel 1937, a 62 anni, dopo un’operazione al cervello. Ma più utilmente Fontaine ci ha già trasportato nelle scorribande della tournée americana, con la scoperta del jazz (sono le note struggenti di The Man I Love), musica popolare snobbata dalle accademie, e dei bordelli di cui è assiduo frequentatore. Ha un problemino e mezzo col sesso, e non è questo ad attrarlo. A volte è solo il fruscìo di un guanto su una pelle nuda di donna. Forever young, adolescente sospeso mai davvero sfuggito al grembo materno: è il profilo che traccia Fontaine spalleggiata dal più autorevole tra i biografi e critici di Ravel, Marcel Marnat.
«Come non provare empatia per questo personaggio che non ama ciò che ha creato e dubita perfino delle ragioni del suo successo? E perché l’elaborazione laboriosa e tortuosa del Boléro gli è costata tanto da scatenare una crisi esistenziale?». Così Fontaine sintetizza le domande poste dal film. Nel finale, in bianco e nero, la danza contemporanea dell’étoile François Alu si incarica di garantire che il Boléro resiste senza scossoni all’usura del tempo.
Resta quel dubbio amletico, che nessuna narrazione può sciogliere: il celebrato erotismo di quei 17 minuti è un prodigioso effetto matematico o è un abbaglio collettivo che ci si tramanda, per tradizione, da un secolo buono?
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