«Da che cosa sarebbe dovuta cominciare una storia naturale della distruzione? Da uno sguardo d’insieme sulle premesse tecniche, organizzative e politiche che consentono di realizzare attacchi aerei su larga scala?». È questa la domanda che W.G. Sebald pone in apertura di una delle conferenze che compongono Storia naturale della distruzione (Adelphi), una raccolta di interventi a proposito del rapporto fra bombardamenti aerei a tappeto sulla Germania e letteratura tedesca (il titolo originale, meno affascinante, era proprio Luftkrieg und Literatur).

La tesi di Sebald è che dopo il disastro non ci sia stato in letteratura niente del genere, quanto piuttosto un lungo silenzio, interrotto qua e là da sporadici racconti delle vittime e da storie di una distruzione tanto assoluta da trascendere la sua radice tecnologica e parere, per l’appunto, naturale quanto un’apocalisse. Secondo Sebald «se le generazioni del dopoguerra volessero limitarsi alle testimonianze degli scrittori, troverebbero difficoltà a farsi un’idea dello svolgimento, dell’estensione, della natura e delle conseguenze che assunse la catastrofe abbattutasi sulla Germania con la guerra aerea (…) il poco che la letteratura ci ha trasmesso è – sia per quantità sia per qualità – assolutamente sproporzionato al carattere estremo delle esperienze collettive vissute in quel periodo».

Come sempre in questi casi neppure i dati aiutano a cogliere davvero le dimensioni della tragedia, sono numeri, statistiche, che non ci raggiungono mai nel profondo quanto una storia, un’immagine, un frammento. Che cosa significhi infatti che la sola Royal Air Force sganciò sulla Germania un milione di tonnellate di bombe in quattrocentomila incursioni uccidendo oltre 600mila persone e distruggendo in parte o in alcuni casi quasi del tutto 131 città, rimane sempre qualcosa di sfuggente, nella sua enormità. Il quadro concettuale è chiaro ma la dimensione concreta del dramma va oltre la portata dei nostri sensi, progettati per sentire fino in fondo la tragedia solo su scale molto più piccole.

Operazioni chirurgiche

Un libro, più recente e molto diverso, ricostruisce proprio le premesse tecniche-organizzative della distruzione, o almeno quelle sul lato americano dei bombardamenti, soprattutto racconta la disgregazione delle sue aspirazioni morali, il percorso che porta dalle buone intenzioni alle due bombe atomiche sganciate sul Giappone. Si tratta di The Bomber Mafia di Malcom Gladwell (in autunno in arrivo anche in Italia per i tipi di Utet), giornalista autore fra le altre cose del podcast Revisionist history.

Gladwell fa parte, a suo modo, di quella schiera di saggisti e conferenzieri noti in tutto il mondo – ma che in Italia in genere non hanno lo stesso successo che in altri paesi occidentali – come Jared Diamond, Yuval Noah Harari, Jordan B. Peterson o Steven Pinker. La specialità di Gladwell sono gli “inganni” che l’architettura della nostra mente ci gioca e lo studio di quegli anfratti della storia dove accadono cose fondamentali ma ignorate dalla storiografia ufficiale, oppure, ancora, di quegli angoli in cui si celano piccoli eventi significativi, vicende in grado di gettare nuova luce su aspetti solo apparentemente periferici della vita umana.

The bomber Mafia nasce come puntata singola di Revisionist History, ma più Gladwell scavava durante la fase di ricerca, più la storia diventava ampia e ramificata, così le puntate sono diventate due, tre, quattro e infine è nato un libro che non è solo la riproposizione del podcast.

Dopo la prima guerra mondiale era diventato chiaro a tutti i comandi generali delle maggiori potenze che l’aviazione sarebbe stata determinante nei conflitti successivi, restava però ancora da capire in che modo. La “mafia” del titolo del libro è in realtà un gruppo di vertice dell’aeronautica americana convito che l’aviazione si possa usare per cambiare non solo gli esiti ma anche il modo stesso in cui è fatta la guerra: da mobilitazione totale – scontro frontale a terra in cui gli stati si confrontano fino allo stremo delle forze – a operazione chirurgica, volta a distruggere dall’alto le infrastrutture strategiche del nemico, costringendolo alla resa senza che l’estenuante scontro a terra, distruttivo per entrambe le parti in causa, debba neppure incominciare.

Per farlo, secondo la Bomber Mafia, servivano dei bombardamenti diurni effettuati da alta quota e con grande precisione. Il problema è che bombardare dall’alto con precisione in quel momento storico è solo un’idea, un’aspirazione, ma niente che sia davvero tecnicamente possibile fare: i bombardieri volano anche a 400 miglia all’ora, ci sono i venti e le nubi, il tempo di caduta degli ordigni da 10mila metri poi è lungo, tanto che nel frattempo la terra, rotando su sé stessa, si è mossa in maniera non irrilevante. E tutto questo senza considerare la reazione delle forze di difesa della nazione attaccata. La soluzione pensata dalla bomber mafia è tecnologica: vengono stanziati enormi fondi per la realizzazione del “puntatore Norden” - dal nome del suo eclettico inventore Carl Norden – una sorta di computer analogico dalla complicatissima costruzione che permette, inserite le variabili, di calcolare attraverso 64 algoritmi quando lanciare le bombe con precisione. Soprannominata “la palla da football” dagli aviatori, la macchina in sé è un oggetto molto raffinato e uno dei punti più avanzati della tecnologia americana – la sua realizzazione rappresenta per budget il terzo progetto statunitense più costoso dopo il Manhattan Project e il bombardiere B-29 – tanto che l’addetto al puntamento viaggia sempre con una carica di esplosivo per farla saltare in aria nel caso in cui l’aereo dovesse finire in mani nemiche. Il problema è che essendo un dispositivo complicatissimo e totalmente meccanico, il processo di costruzione in serie non garantisce la stessa affidabilità che avevano i primi esemplari costruiti pazientemente in maniera artigianale e le condizioni di utilizzo in un volo di guerra non sono le stesse che in laboratorio o nelle esercitazioni.

Il Norden, insomma, otterrà risultati parziali, lontani dalle promesse originarie, e questo senza considerare un problema che quel tipo di strumentazione non sarebbe comunque mai stato in grado di superare: le nuvole. Se, superati la contraerea e i caccia nemici, gli aerei americani riuscivano ad arrivare sull’obiettivo ma trovavano tempo coperto tutta l’idea del bombardamento di precisione diventava comunque impraticabile. Nel mentre gli aerei continuavano ad allinearsi all’obiettivo per 7 lunghi minuti in pieno giorno, il tempo necessario a mettere a fuoco il Norden e un periodo più che sufficiente per diventare oggetto di un sostanziale tiro al piccione. Una delle missioni di bombardamento di precisione più note dell’intero conflitto – il secondo raid sulle fabbriche di cuscinetti a sfera di Schweinfurt – si risolse con la perdita di un quarto dei veicoli impegnati. Se si considera che gli equipaggi dovevano svolgere 25 missioni prima di essere congedati si capisce facilmente come in quel frangente volare su un bombardiere equivaleva a una condanna a morte fatta e finita.

Mosche e ratti

La teoria della Bomber Mafia per quanto rischiosa per gli equipaggi era però aderente al paradigma dell’egemonia americana, un modello che difficilmente rinuncia al tentativo di dare alle proprie azioni una giustificazione morale, che sia essa effettiva o una mera razionalizzazione: quindi bombardare dall’alto sì, ma per lo scopo di evitare il prolungarsi del conflitto e un conseguente numero maggiore di vittime. L’idea dei bombardamenti di precisione non era invece presa minimamente in considerazione dalla Raf e da Churchill, che per quanto riguarda la Germania avevano una sola ricetta: bombardamenti notturni a tappeto. Una strategia, quella dell’area bombing, teorizzata da Frederich Lindemann (per altro tedesco di nascita), un uomo che dava la seguente definizione di bombardamento morale: «Un bombardamento che avvantaggia il mio amico Wiston Churchill», e messa in atto da Arthur Harris, detto dai suoi uomini “il macellaio Harris”, Questo approccio considerava i civili parti in causa nel conflitto e aveva diverse motivazioni: era una forma di ritorsione rispetto ai missili e alle bombe che si erano abbattuti sull’Inghilterra, coltivava l’idea che i bombardamenti sulla popolazione avrebbero fiaccato l’umore della nazione (idea che si era curiosamente già dimostrata sbagliata proprio in Inghilterra), e in generale non aveva pregiudiziali religiose, al contrario della Bomber Mafia presso la quale molti ufficiali erano cristiani praticanti. Quello che successe in seguito al fallimento dei piani della Bomber Mafia e con la continuazione dei bombardamenti a tappeto lo sappiamo tutti, fra i frammenti raccolti da Sebald troviamo questo di Hans Erich Nossack: «Ratti e mosche avevano preso possesso della città. Pingui e insolenti, i ratti scorrazzavano per le strade. Ma ancora più disgustose erano le mosche. Grosse, di un verde iridescente, come mai si erano viste. A grumi si voltolavano sul selciato, si posavano sulle rovine per accoppiarsi e si scaldavano, pigre e satolle, sui vetri in frantumi delle finestre. Quando ormai non riuscivano più a levarsi in volo, strisciavano dietro di noi attraverso le minime crepe, imbrattando ogni cosa. E a colpirci per primi l’udito al nostro risveglio erano il loro fruscio e il loro ronzio. Andò avanti così fino a ottobre».

Quando si radono al suolo interi quartieri abitati, non rimangono solo le rovine che vediamo nelle foto in bianco e nero ma anche corpi putrescenti, mosche e ratti. Per raggiungere i cadaveri dentro i rifugi antiaerei è necessario eliminare prima i nugoli di mosche con il lanciafiamme, altrimenti è impossibile entrare, e dalla terra continuano a emergere lunghi vermi. Con il passare del tempo la vegetazione segnerà il tempo passato dai diversi bombardamenti, scrive Solly Zuckerman: «Era un problema botanico. Questo mucchio di macerie era nudo e spoglio, pietre grezze, pezzi di muri distrutti di recente... neanche l’ombra di un filo d’erba, mentre altrove già venivano su alberi, graziosi alberelli nelle camere da letto e nelle cucine». Il risultato complessivo, aggiunge Sebald, è che ci si ritrova «nella necropoli di un popolo sconosciuto, misterioso, sradicato dalla sua esistenza civile e dalla sua storia, risospinto al livello evolutivo dei raccoglitori nomadi».

Napalm

La Bomber Mafia fa un nuovo tentativo di portare avanti le sue teorie nell’ultima propaggine del conflitto, quella contro il Giappone. Gli Stati Uniti vogliono assolutamente evitare i costi umani di un’invasione di terra e, una volta conquistate a duro prezzo le isole Marianne, ci costruiscono delle piste da cui far decollare i nuovi, costosissimi, B-29 Superfortress, aerei enormi che sono anche gli unici con un’autonomia sufficiente a raggiungere il Giappone, bombardarlo e tornare indietro. Gli obiettivi strategici sono sempre le industrie del comparto militare, ma ai problemi di cui gli americani hanno fatto esperienza in Europa se ne aggiunge un altro, che nessuno al tempo poteva immaginare: all’altitudine prevista per il bombardamento, sopra il monte Fuji gli apparecchi incontrano un vento di coda che va a 125 miglia di velocità, rendendo il Norden del tutto inservibile. Nessuno ha mai visto niente del genere, tanto che gli equipaggi che per primi riportano il fenomeno rischiano la corte marziale, poi però i vertici militari si consultano con i meteorologi e capiscono: si tratta del jet stream, un vento la cui esistenza era stata solo teorizzata ma fino a quel momento mai provata e che rende impossibili i bombardamenti da grandi altitudini in tutta l’area attorno a Tokyo.

Un’altra sconfitta per le teorie della Bomber Mafia, tanto che Haywood Hansell, il generale a capo delle operazioni in quella zona, viene infine sostiuito da Curtis E. LeMay, uno dei protagonisti principali del libro di Gladwell, un militare fisicamente simile a un grosso bulldog, sigaro sempre in bocca, che si trasporta alle isole Marianne guidando personalmente un B-29.

LeMay ha partecipato ai tentativi di bombardamento di precisione sulla Germania e ha sempre obbedito agli ordini, è però alieno ad ogni fascinazione ideologica. Si tratta di un uomo di estremo pragmatismo la cui massima è «preferisco uno stupido che faccia qualcosa di sbagliato piuttosto che una persona intelligente che non fa nulla» e la sua priorità, oltre a contribuire alla vittoria degli Stati Uniti, è salvaguardare i suoi avieri. Anni dopo, nell’ingresso in marmo della sua casa di Los Angeles si troveranno due murales: su un lato una veduta di Schweinfurt, sull’altro una di Regensburg. Due delle missioni dove erano morti più avieri americani. Le May affronta il problema del jet stream senza venirne inizialmente a capo: per evitarlo bisogna volare più basso, ma farlo di giorno, condizione necessaria al bombardamento di precisione, significa suicidarsi. La soluzione, tremenda, quasi indicibile, gliela offre l’ultimo ritrovato dell’università di Harvard: il napalm. Le capacità di questo gel incendiario sono appena state testate davanti ai più alti ranghi dell’esercito statunitense con una perfetta ricostruzione di due villaggi: uno tedesco e uno giapponese. Per costruire il set, nel deserto dello Utah è stato chiamato anche Antonin Raymond, un famoso architetto che aveva vissuto e lavorato per anni in Giappone. La ricostruzione è precisa al punto che nelle case in stile giapponese sono stati inseriti anche i tatami, per testare la penetrazione delle bombe all’interno dei piani. Il risultato è impressionante: il napalm è molto più distruttivo degli ordigni precedenti ed è particolarmente efficace sugli abitati giapponesi, allora costruiti in larga parte in legno.

Non solo LeMay adotta il napalm, ma passa ai bombardamenti notturni a bassa quota, quindi a tappeto. Dopo il primo raid gli avieri si accorgono che i bombardieri tornati alla base sono ancora impregnati dell’odore dei civili giapponesi bruciati vivi. Nei mesi successivi i raid con il napalm uccideranno almeno 500mila persone, a cui seguiranno le due bombe nucleari di Hiroshima e Nagasaki. Gli ordigni nucleari, sosterrà sempre LeMay, erano superflui, la guerra ormai era stata vinta. A quel punto si trattava piuttosto di mostrare al mondo l’arma più devastante mai inventata e in possesso degli Stati Uniti.

Prima della fine del conflitto la visione della Bomber Mafia si era trasformata nel suo esatto contrario, seminando morte e distruzione indiscriminata, i tempi non erano ancora maturi. Oggi invece droni comandati a distanza possono effettuare singoli omicidi e il problema è diventato quindi quando e perché approfittare di un potere così chirurgico e radicale: ogni atto di violenza con le sue conseguenze drammatiche impone dilemmi morali di difficile risoluzione.

Il libro di Gladwell si conclude proprio con dei generali americani che discutono fra loro di questo loro nuovo potere – il vecchio sogno della Bomber Mafia –, il podcast invece ha un altro finale, e si arresta di fronte al memoriale per i bombardamenti al napalm su Tokyo, forse a ricordare come per ogni militare che discute di dilemmi etici ci sia qualcuno a terra che avverte il ronzio in avvicinamento della morte dal cielo.

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