La scorsa settimana la notizia dell’eccezionale ritrovamento dei bronzi di San Casciano dei Bagni è stata accolta con una grande quantità di contributi giornalistici. «I giornali la celebrano con tanto entusiasmo che, vi confesserò, non è semplicissimo trovare un articolo che non sia pieno di letteratura, pieno di lirismo, che non seppellisca la notizia tra una montagna di metafore, espressioni evocative e poetiche, sentimentali…» si lamenta nella puntata di Morning del 9 novembre Francesco Costa, poco incline al giornalismo per così dire “letterario”.

A sfogliare le molte pagine dedicate alla “nuova Riace” si trovano parecchi di questi elementi: le statue sono umanizzate («sembrano quasi dormire», Corriere della Sera), si usa un registro enfatico («Il miracolo di San Casciano», «La sopravvivenza della civiltà etrusca sconfitta dalla Storia», Repubblica), si dà ampio spazio al racconto delle emozioni e all’aneddotica («emozione unica» dei «ricercatori precari», Corriere della Sera).

Echi letterari 

Il gruppo del Laocoonte (foto Wikipedia)

Nella sfera della comunicazione scritta il ritrovamento archeologico scivola facilmente dall’asciutto resoconto alla creazione letteraria: ha quindi una serie di echi culturali immediati e alla portata di qualunque scrivente medio-colto occidentale, in particolare italiano.

La letteratura di questa parte del mondo si è infatti sempre occupata di rovine, frammenti, cocci, statue, e molto spesso ha reagito nell’immediato ad una scoperta archeologica: nel 1506 il ritrovamento del cosiddetto “gruppo del Laocoonte” sul colle Oppio a Roma (alla presenza, pare, di un giovane Michelangelo) fu celebrata con una messe di componimenti ecfrastici che fecero circolare in tutta Europa, insieme alla notizia, il codice retorico del ritrovamento come evento fondativo e identitario, segno di un nuovo corso dei tempi.

Molto più che la banale registrazione di un avvenimento, quella scoperta e quella letteratura sono un esempio dell’ossatura retorica della cultura rinascimentale, della scommessa che il passato più illustre possa sopravvivere sotterraneamente, riemergere, rinascere, tornare alla vita e che noi contemporanei, opportunamente illuminati, potremo tornare ad abitarci.

Il passato come paura

Il sepolcro degli Scipioni (foto Wikipedia)

In tempi meno ottimisti, la letteratura si è incaricata di canalizzare la preoccupazione che il passato torni alla vita invece a ossessionarci, a testimoniare disastri dimenticati. Nel 1780, la scoperta del sepolcro degli Scipioni, a Roma, ispira Alessandro Verri ad ambientarvi un’inquietante storia di fantasmi, Notti romane, in cui le anime di personaggi come Cesare e Cicerone riprendono magicamente la parola davanti all’incredulo passeggiatore notturno.

Intorno al 1836 nuovi scavi a Pompei danno l’occasione a Giacomo Leopardi di contemplarne nella Ginestra il «sepolto / scheletro», evidenza materiale della nullità della vita e dell’opera umana di fronte alla ciclica, cieca violenza della natura. Alberto Savinio, svagato reporter fra le tombe etrusche di Tarquinia, avverte dell’importanza di non svelare il mistero etrusco: «Il mistero è simpatico, è bene non dissiparlo. Il mistero va curato, custo­dito, circondato di oscurità, reso sempre più misterioso».

Negli anni Cinquanta, nuovi scavi a Cerveteri contribuirono alla sublime “rimozione del rimosso” che precede il Giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani: contemplando il destino degli Etruschi, scomparsi senza racconto, l’urgenza di raccontare i morti di ieri, gli scomparsi nei campi di concentramento, si palesa come un dovere morale al narratore. C’è quindi una quantità di modelli illustri che più o meno consciamente premono sulla penna di chi oggi è chiamato a raccontare un nuovo ritrovamento.

L’Apollo di Veio 

L'Apollo di Veio (foto Wikipedia)

Con l’antichità etrusca, poi, la letteratura ha un rapporto speciale: quest’antichità “minore”, di “sconfitti”, misteriosi e dimenticati, che parlavano una lingua oscura e di cui ci è giunta notizia solo attraverso racconti di seconda mano, dei greci e dei romani, ha stuzzicato ancora di più l’immaginazione degli scrittori: quando, nel 1916, viene ritrovato l’Apollo di Veio, clamorosa scultura in terracotta variopinta a grandezza naturale, l’Europa impazzisce: sue fotografie circolano su riviste inglesi e francesi, insieme a resoconti sulla scoperta che mescolano ineccepibile erudizione e manierata retorica sul ritorno alla vita dell’antico.

Ecco come Giulio Quirino Giglioli, scopritore dell’Apollo, descrive il dissotterramento: «importanti rovine dormono in quel deserto, sepolte sotto la boscaglia o il verde prato»; e il suo Apollo «veramente cammina (…): noi lo vediamo procedere veloce a grandi passi, mentre la veste svolazza indietro, con ardimento straordinario». Anche quando giornalismo e letteratura erano già due media chiaramente distinti la cronaca della scoperta archeologica era già spesso fortemente contaminata di elementi “letterari”; e ancora lo è, specie in chi magari ha studiato al liceo, dove la stesura della “bella pagina” è ancora fra gli obiettivi formativi del tema di italiano.

Il sorriso enigmatico, arcaico, la posa movimentata, nell’atto di incedere o saltare dell’Apollo, dio redivivo, così antico, così elementare, lo rendono gradito tanto ai tradizionalisti quanto agli avanguardisti. Da noi Curzio Malaparte (Apollo toscano, Corriere della sera, 1936): «Quest’Apollo etrusco è nato qui (a Veio) dove l’erba ingiallisce fra i macigni e gli sterpi quasi la inaridisse un fuoco sotterraneo». In Gran Bretagna Aldous Huxley (After the fireworks): «Trovai questa meravigliosa creatura qui. (…) Un’esperienza nuova di zecca, una voce nuova e apocalittica dal passato. (…) Fu proprio dopo la guerra che lo vidi, proprio dopo l’apoteosi (…) di tutte le cose che Apollo non rappresentava. Puoi immaginare quanto meravigliosamente nuovo sembrasse, per contrasto. Dopo quell’orribile enormità, era un bel simbolo di tutto quello che è piccolo, locale, gentile (…) meravigliosamente sano».

Il poeta americano Carleton Beals, nella poesia The Apollo of Veii pubblicata sulla rivista Broom nel 1923, lo celebra come una creatura ibrida, un po’statua, un po’macchina, un po’animale: «bending leopard-lithe torso / clean flesh-ripple over ribs (…)/ plunge of the head forward, head forward».

Chiara Zampieri ha raccolto tutto questo materiale per la sua tesi di dottorato: andatevi a vedere il video da lei realizzato in collaborazione con il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, che oggi conserva il dio futurista.

Radici e identità

Ufficio stampa beni culturali

Questa letteratura testimonia che gli stimoli culturali che ci arrivano da una scoperta archeologica del calibro di quella di San Casciano dei Bagni hanno a che fare con degli assi profondi del rapporto con il tempo, le radici e l’identità nell’Italia d’oggi (si veda per esempio la discutibile affermazione del neo ministro della Cultura per cui «la stratificazione di diverse civiltà è un unicum della cultura italiana»: non lo è): per questo lo stile cronachistico non basta a raccontare tutto quello che un bronzo etrusco tornato alla luce significa oggi in termini culturali, emotivi, identitari.

L’idea è che ciò che è celato sotto la superficie del noto e del visibile sia vertiginosamente importante e veritiero, che abbia qualcosa di urgente, se non di profetico, da dirci nel momento rituale e rivelatorio dello scoprimento (l’analogia con il linguaggio della psicanalisi non è affatto casuale). Il ricorso ai materiali e ai metodi della letteratura produrrà forse giornalismo insoddisfacente, ma è un sintomo della profondità con cui queste immagini e questi fatti ci colpiscono, percuotendo nervi sensibili.

Ho sperato che qualche scrittore contemporaneo dedicasse una poesia o una prosa pienamente “letteraria” alla scoperta dei bronzi in tempo per questo articolo, ma ho trovato solo un esempio: la splendida vignetta di Mauro Biani pubblicata giovedì su Repubblica, dove la dea Igea, un po’ oracolo, un po’ fumetto, scandisce: «A volte se tocchi il fondo e cominci a scavare ritrovi la tua storia». Quod erat demonstrandum.

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