Risponde dall'Ucraina: sta nevicando. In video sorride, come fa sempre, con grazia. Dice che sta portando al fronte, in prima linea, ambulanze con la fondazione che ha creato: Legacy of war. Questo è Giles Duley: fotografo di guerra, superstite di conflitti innumerevoli, e chef. Ha due anime, come le due vite che gli sono toccate in sorte.

Giles nasce a Londra nel 1971. Ragazzo problematico, pugile imperterrito col talento di prendere pugni invece che darli (così gli diceva il suo allenatore), finisce in ospedale a 16 anni, pieno di rabbia.

Un giorno quel livore però si trasforma, dallo stomaco gli sale fino agli occhi: accade quando la sua famiglia gli regala, mentre è ancora nel letto della clinica, una macchina fotografica e il libro di un reporter di guerra che gli cambierà la vita.

Le ingiustizie in bianco e nero che vede nelle immagini lo ripugnano, il linguaggio in cui sono immortalate da quel mostro sacro del fotogiornalismo lo ipnotizzano.

«Quelle foto le vedo ancora oggi se chiudo gli occhi» racconta. Le sale di quell'ospedale dove è ricoverato da adolescente, infermiere e medici, sono i primi soggetti che fotografa, quasi una profezia per quelli che dopo incontrerà in zone di guerra. La collera con cui era entrato in clinica era deflagrata in arte e denuncia con quell'Olympus in mano: mi sembrava, dice, che stavo «parlando per la prima volta».

Si rialzerà, fotograferà concerti e poi partirà per terre lontane a documentare conflitti.

L’Afghanistan

Se qualcosa in una vita si può chiamare destino, allora per Duley si è palesato in quella stanza d'ospedale, che però non sarà l'ultima. Nel 2011 va in Afghanistan a documentare la guerra e calpesta un ordigno esplosivo improvvisato che gli taglia via subito due gambe e un braccio. Il resto è sangue ed incoscienza, un limbo fatto né di vita, né di morte, né di sogni – ma di tutto questo insieme – ; uno stato in cui Giles rimane per 46 giorni.

«Intorno a me tutti dicevano che sarei morto. Ero in uno stato mentale difficile da spiegare, sei cosciente ed incosciente, dentro e fuori. L'unico braccio illeso era avvolto tra le bende».

Subirà 37 operazioni, per comunicare può sbattere solo le palpebre: è «chiuso dentro di sé», intrappolato, dice, nella sua immaginazione.

Ma è proprio lì dentro che comincia a preparare piatti: «Ho cominciato a cucinare nella mia testa». In quel flusso estremo di eterno presente succede qualcosa alla sua scatola cranica: diventa una cucina. Lo salva la speranza di ritrovare il gusto.

Gli ingredienti li moltiplicavano i neuroni, le sinapsi ramificavano ricette, la mente ribolliva come una pentola in un corpo di pietra, intanto immobile.

«Cucinavo con i ricordi mentre avevo tubi in bocca, al collo, nel naso. Qualcosa che mamma mi aveva preparato da bambino, la pasta, la cena di un primo appuntamento, ricordavo ogni piccolo dettaglio». Tra le sinapsi ritrova una biblioteca del gusto, può viaggiare solo attraverso immaginari mestoli e forchette. Ma quella è la sua resurrezione. È la fenomenologia di uno chef di guerra e di pace: «È così che che sono diventato cuoco, ricordando tutti i piatti che hanno significato qualcosa per me nella vita».

«Ci sono persone che, per esempio, quando mangiano un limone, sentono un urlo». Di questo processo neurologico, in cui più sensi vengono connessi contemporaneamente da un evento esterno, ne parlava anche Vladimir Nabokov che sosteneva di “vedere” i colori delle parole: si chiama sinestesia.

Lo sperimenta Giles imbottito di morfina: «In quei giorni, qualcosa è successo al mio cervello, credo di averne risvegliato una zona che gli altri non attivano mai».

Non aveva più nessuno dei cinque sensi, ma il cibo “mentale” glieli fa ritrovare tutti: è una reminiscenza che arriva dal passato, è rito e famiglia. «L'arte della cucina mi è stata tramandata da due lati della mia famiglia. Mia madre, scozzese, è stata educata a fare everything from scratch, tutto da zero, pasta, pane, polli spellati: sono cresciuto in una casa così, dove tutto era handmade, fatto a mano, anche se non lo apprezzavo all'epoca. E poi dalla mia nona, la nonna vicentina, Lina, antifascista scappata a Londra».

Seconda vita

La prima sala d'ospedale ha fatto di lui un fotografo, la seconda farà di lui un cuoco.

Quando il fotografo di guerra Giles Duley si risveglierà, sarà diventato One armed chef, lo chef da un braccio solo. «Mi sono detto allora: non penserò più alle cose che non posso più fare, ma a ciò che ancora posso fare e lo farò al meglio». Non è più un angry young man, giovane uomo arrabbiato, ma un adulto affamato di cambiare le cose.

Il cibo, come le fotografie, sono ricordo: «Ti portano in un certain place, un certo posto. Entrambi sono arti basate sulla scienza: sono reazioni chimiche. La fotografia è luce che reagisce a una superficie argentata e, come il cibo, è sensibile al calore e al tempo. Per entrambi, quello giusto, è fondamentale».

Ma una foto rimane tra le mani, un piatto invece scompare dopo un passaggio fugace e diretto tra occhio, bocca e stomaco.

È proprio in quella sua essenza transitoria, in quella finitudine che c'è l'amore puro, dice Giles: «Mia mamma passava il giorno a cucinare e non si sedeva neppure a mangiare con noi, in mezz'ora era tutto finito, ma quella è la bellezza, love in the purest form, quando fai qualcosa per qualcun altro. Oggi io faccio la stessa così per i miei amici».

La sua pasta preferita sono i ravioli crabs, quelli con i granchi che con suo padre andava a prendere in un porticciolo da piccolo: «Quel piatto mi fa sempre avere sette anni».

«Oggi cucinare, specialmente fare la pasta che è un passaggio di ripetizioni, è la mia terapia, il modo in cui dimentico l'orrore che ho visto nella vita, una forma di meditazione. Ho capito che il cibo è l'opposto della guerra: la guerra è odio, il cibo è come portiamo insieme le persone. Foto e cibo per me sono yin e yang per trovare pace, elementi che convivono insieme, hanno molto in comune. Sono storytelling, canali per avvicinarsi alle persone, forme di comunicazione, un modo di leggere il mondo. Ora seguo una regola: non fotografo nessuno senza aver prima averci mangiato insieme».

Quando lavori come fotografo e arrivi con la tua macchina sul campo, non sai mai come avvicinarti alle persone, racconta.

«Oggi approccio i soggetti delle foto come faccio con gli amici. Dico: Hey, mangiamo qualcosa insieme?». Gli è capitato con un'anziana di Mosul che aveva perso tutti e tutto.

Le disse: «La mia nonna è morta, me ne serve una nuova. Quel giorno, col pollo congelato rotto col martello volato per la stanza della casa bombardata, insieme abbiamo riso e mangiato».

I ristoranti e la fondazione

Oggi cucina in grandi e lussuosi ristoranti a Londra e in giro per il mondo, attività che aiutano a sostenere la sua fondazione per feriti e rifugiati di guerra.

«Il miglior cibo che abbia mai mangiato non è quello cucinato per impressionarmi in un ristorante costoso, ma quello che viene dal cuore di mamas, granmas, papas. Nelle zone di guerra, al fronte, il momento in cui mangi è quello in cui dimentichi tutto il male intorno».

Ormai fotografo affermato, Giles, un giorno di questi ultimi anni, ha incontrato l'autore del libro che, a 16 anni, gli ha cambiato la vita, un fotografo che intanto aveva dichiarato: «Non puoi illuderti che le tue fotografie su qualche giornale cambieranno il mondo». «Gli ho detto che non aveva ragione: la fotografia, la sua, aveva quanto meno cambiato me».

Il fotografo-leggenda era Don McCullin. Come la fotografia, anche il cibo non cambierà mai il mondo, dice Giles.

«Ma oggi penso questo: credevo che il nostro lavoro, da giornalisti, fosse attaccare leader politici che fanno infuriare le guerre e distruggono il mondo. Invece abbiamo solo la possibilità di cambiare le società dal basso verso l'alto e questo per me comincia con a shared meal, un piatto condiviso. Dimentica tutto: guarda le persone nella tua comunità con cui non concordi, invitale a mangiarle con te».

Si può piangere per una foto e per un piatto, per la storia di una cena e di una foto, per un album e un menu di guerra.

Giles lo ha fatto. «Molte delle persone nelle mie foto sono morte. Non voglio lasciarmi sopraffare da tutto questo. Piango per le foto venute male, penso: ho fallito a raccontare queste persone, le loro storie. Mi commuovo a volte quando cucino: compio gesti che compiva mia madre, che le aveva tramandato sua madre. Mi connetto alla storia, al passato attraverso il cibo, plasmo qualcosa come decine di generazioni hanno fatto prima di me, specialmente quando preparo la pasta. Quando cucino, sento i miei antenati sussurrare».


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