È l’espressione più sincera e precisa del tardo capitalismo e dei valori che fanno la sostanza del presente, e come sintomo, non causa, andrebbe trattata. La caratteristica della Dark Polo Gang è la scanzonata autoironia, dettaglio importante per comprendere, senza per forza legittimare, alcuni dei riferimenti lirici a metà tra la violenza e la guasconeria
«Questa storia di Tony Effe mi fa godere! Un giovane ragazzo di periferia a cui piacciono le donne e i soldi che glielo mette in quel posto al Pd, alla sinistra, alle femministe!» dice Giuseppe Cruciani ai microfoni di uno dei programmi più ascoltati in Italia, La Zanzara.
Sono i giorni successivi al pasticciaccio brutto di Roberto Gualtieri e del concerto di Capodanno al Circo Massimo, quando il paese si è diviso tra chi ha protestato o inneggiato alla censura su Tony Effe e chi, come Cruciani, ha colto l’occasione per rendere noto il fatto di non avere idea di chi fosse Tony Effe.
Non è un crimine, sia chiaro – a meno che tu non sia il conduttore del suddetto programma più ascoltato in Italia, in quel caso sapere chi è Tony Effe e da che quartiere proviene prima di trasformarlo nel vessillo di una battaglia culturale che ha luogo nella tua testa sarebbe corretto –, si può sopravvivere anche senza avere idea di che musica ascoltano i giovani e di che materia sono fatti i loro sogni: principalmente soldi, collane pesanti ed epiteti sessisti, ma questa è un’altra storia e ci arriveremo più avanti.
Non è un dramma non avere idea di chi siano Lazza, Rkomi, Tedua, Tony Boy, DrefGold, Kid Yugi, e persino il vecchio e saggio Guè, ma loro esistono e sono tra di noi, in cima alle nostre classifiche. Loro esistono, e d’un tratto ce li troviamo a Sanremo, nei concerti di Capodanno, tra gli Spotify Wrapped dei nostri colleghi, nel grande calderone del mainstream, o come si direbbe in termini più novecenteschi, del pubblico generalista.
Il periodo d’oro
Nel 2025 il primo album di Sfera Ebbasta, XDVR, compie dieci anni. Dieci anni in cui sono successe così tante cose che il paroliere di Cinisello Balsamo che ha sdoganato il termine «trap» si è trovato a fare un post su Instagram in cui, porgendo un gentile dito medio, scrive: «Avevo tutti i requisiti per San Remo», tutti tranne quello di conoscere la sillabazione del festival della canzone italiana, ma non ci perdiamo in dettagli.
Il biennio 2015/2016, quello in cui Sfera Ebbasta al secolo Gionata Boschetti esplode come fenomeno sottoculturale, viene considerato dagli esperti del genere come il periodo d’oro della trap italiana, ossia il momento in cui le nostre menti migliori si sono unite per importare senza troppi sforzi di personalizzazione un intero universo musicale dagli Stati Uniti (e in parte dalla Francia) fondando la cosiddetta Nuova Scuola.
Gli stilemi e l’estetica della trap Made in Italy, infatti, combaciano perfettamente con i riferimenti oltreoceano e oltralpe: l’uso massiccio di auto-tune, gli hi-hats in doppio o triplo tempo, i testi semplici – detti mumble rap – e non per forza scanditi dalle rime come invece succedeva per il rap old school, la passione per la lean, una droga a base di sciroppo per la tosse e codeina, lo sfoggio di abiti costosi, di gioielli enormi e di situazioni esageratamente opulente, una prossemica rilassata, strafottente e ricca di gesti idiosincratici – erano gli anni in cui si dabbava, e Bello Figo, esponente caratteristico della scena, lo faceva in faccia ad Alessandra Mussolini ospite da Belpietro su Rete 4.
L’entrata nel mainstream
Sia da un punto di vista formale che contenutistico potremmo dunque dire che l’esperimento della trap italiana, cominciata timidamente da Maruego con il suo brano antesignano Cioccolata e portata ai vertici del successo (comunque ancora di nicchia, per quanto consistente) da Sfera, è derivativa in tutto e per tutto. Cos’è, allora, che ha reso mainstream e trasversale un prodotto così circoscritto, non particolarmente originale ed esauribile in poco tempo?
Per rispondere a questa domanda si aprono una serie di grandi parentesi, una su tutte quella legata al fatto che, da dieci anni a questa parte, nella nostra bella Penisola il mercato musicale di fattura italiana ha divorato quella estera. Tra trap, rap, cantautorato indie e rinascimento sanremese, la parola d’ordine quando si parla di canzoni e melodie è autarchia. Ciascun elemento ha nutrito l’altro, e non è facile capire se Sanremo è rinato grazie a un rinato interesse per la lingua italiana veicolata dai nostri rimatori in Gucci o se il processo è stato l’inverso – sicuramente internet ha giocato un ruolo importante –, sta di fatto che a un certo punto Achille Lauro, Lazza e Geolier erano i protagonisti della kermesse.
Questi tre nomi nello specifico ci aiutano a mappare l’unica vera peculiarità della trap italica, che per quanto consista perlopiù nello scimmiottare quella statunitense e francese, ha il suo tocco d’estro, ossia il regionalismo. Dialetto, cadenza, slang, estetica urbana: a città diversa corrisponde trapper diverso, un po’ come le forme di pane o il modo di chiamare l'alimento che si consuma al mattino insieme al cappuccino a forma di mezzaluna.
La scuola milanese, e in generale settentrionale, è quella da cui provengono il maggior numero di trapper nonché Sfera e tutta l’iconografia industriale e padana del maranza, forme estensive del fenomeno apripista dei Club Dogo, mentre quella napoletana, come accade anche in altre forme d’arte, punta molto sulla musicalità del dialetto, morfologicamente compatibile con la metrica del genere. Aprire una parentesi su questi due canoni vorrebbe dire cominciare a scrivere un’enciclopedia, dunque concentriamoci sulla terza scuola, quella romana.
La scuola romana
È a Roma, infatti, che nel 1991 nasce Nicolò Rapisarda, il volto gentile del sessismo musicato, l’ex bambino prodigio che recitava nelle fiction o, come si è definito lui stesso nel suo pezzo-dissing a Fedez Chiara, «il crackomane più bello d’Italia». Un po’ Ninetto Davoli un po’ wannabe Al Pacino, Rapisarda in arte Tony Effe è il terrore di tutti i genitori apprensivi che si chiedono come sia possibile che il proprio figlio ascolti canzoni in cui si parla di sesso, droga e «culi sopra le Bentley», mentre i supermercati e i negozi delle vie del centro mandano in filodiffusione la sua ormai passata hit Sesso e Samba.
Al contrario di ciò che pensa Cruciani, e di ciò che pensano in molti, il cuore pulsante della trap romana non sono le borgate ma è la borghesia, non è un romanzo di Pasolini ma uno di Moravia: per quanto il messaggio condiviso dalle Alpi all’Etna – anche questo importato acriticamente da un generico inno all’American dream, il Cinisello’s dream – sia quello di un’ascesa sociale che guida i protagonisti della trap dalle stalle alle stelle, generando invidia e frustrazione negli occhi di chi guarda, spesso si tratta di un espediente retorico che ha ben poco a che fare con passati travagliati e molto più con un storytelling necessario alla cosiddetta street credibility; diciamo, il capitale reputazionale.
Del resto, anche Ultimo viene da una famiglia di costruttori capitolini e Achille Lauro è figlio di un magistrato della Corte di Cassazione, dove vai se il sogno di rivalsa non ce l’hai? Nel caso di Tony però, e del gruppo da cui nasce, la Dark Polo Gang, il luogo di provenienza è sempre stato un elemento centrale della loro poetica. Mentre Sfera Ebbasta conquistava il produttivo nord a suon di raddoppiamenti fonosintattici, il quartetto del Rione Monti composto dal figlio dello sceneggiatore Francesco Bruni, Dark Side, il laureato in marketing e comunicazione allo IED, Dark Wayne, l'italo americano Pyrex e ultimo ma non Ultimo Tony Effe figlio di un orafo scalava le vette della trap italiana sulle note oscure del producer figlio del già noto rapper statunitense Duke Montana, Sick Luke.
La caratteristica interessante della DPG, oltre alla provenienza ben distante dall’immaginario di minoranza ghettizzata tipico del genere, è la scanzonata autoironia, dettaglio importante per comprendere, senza per forza legittimare, alcuni dei riferimenti lirici a metà tra la violenza e la guasconeria del Rapisarda e compagnia nell’arco di questi dieci anni di attività.
Da subito, i quattro inaugurano un lessico familiare, detto «linguaggio alieno», da condividere con i fan: gli scemi sono «i bufu», ai nemici si mandano i bacini, il motto è il «triplo sette su ogni cosa», il triplo sette delle slot machine, l’esclamazione è «eskere», una crasi della frase «let’s get it», la bitch diventa «bibi». Cagnolini maculati, pellicce fluo, abiti eccentrici, occhiali da sole grossi, gioielli vistosi, estetica caramellosa, infantile e iper-simbolica, elementi che compongono il simulacro di un edonismo consumista e individualista, fanno da contorno a testi in cui, per restare sullo schema di partenza, ossia quello del nuovo continente, i topoi sono sempre i soliti tre, soldi, droga, donne.
«La tua ragazza segue la moda, io seguo i soldi e la droga», «Bacio in bocca come i mafiosi», «Chiamo queste puttane “puttane”» sono solo alcuni dei tanti versi della Dark Polo Gang che, decontestualizzati, possono risultare se non preoccupanti, quantomeno problematici, così come lo sono sembrati quelli di Tony Effe a chi ha chiesto al comune di Roma di non farlo esibire.
Tardo capitalismo
Dato per assodato che il close reading è un metodo di analisi del testo rispettabilissimo e che, favorevoli o contrari, la trap della DPG e di tutti gli altri è diventata un genere mainstream con un tasso di digeribilità e di pop-izzazione molto più alto di qualsiasi altro genere contemporaneo, la domanda che dovremmo porci a questo punto potrebbe essere un’altra.
Sarebbe ipocrita negare il fatto che i testi degli artisti che popolano la trap siano violenti, così come lo è basarsi solo su un’analisi del testo che non comprende anche un’analisi della struttura in cui è inserito e dell’impatto che ha sul reale, catartico, emulativo, post-ironico, performativo che sia. E se non partiamo dal presupposto che l’arte, intesa come forma di espressione e rappresentazione, a qualsiasi livello, imita e replica la realtà, e non viceversa, difficilmente possiamo spiegarci il perché di certe canzoni.
Se Tony Effe, o chiunque altro al posto suo, usa un certo linguaggio che riflette un modo di pensare o immaginare il mondo, diciamo, una Weltanschauung del bling bling, e nello specifico le donne (ma anche, e soprattutto direi, i soldi e il rapporto con l’ostentazione che rasenta una parodia della ricchezza), evidentemente siamo di fronte alla traduzione di un sentimento che esiste nel reale, anche solo in termini aspirazionali, prima ancora che in una canzone. In questo senso, la trap è l’espressione più sincera e precisa del tardo capitalismo e dei valori che, più o meno ironicamente, fanno la sostanza del presente, e come sintomo, non causa, andrebbe trattata.
Nella sua veste più ripulita, o imborghesita, come avremmo detto in un collettivo militante degli anni Settanta, entra dalla porta principale degli eventi collettivi e trasversali, da Sanremo al concertone del Primo maggio, che, per sopravvivere, hanno bisogno di nutrirsi di fenomeni molto più contemporanei e significativi di quanto un’apparizione di Zarrillo o della PFM possa essere nel 2025.
Poco hanno a che vedere con il PD, con le femministe o con qualsiasi altro antagonista del tutto marginale rispetto alla grandezza di un discorso che non conosce ideologia né coscienza di classe se non quella dell’auto-celebrazione e adattamento ai mezzi del presente per massimizzare il risultato: se non puoi suonare al Circo Massimo, con il permesso e il benestare di una società civile che non solo ti ignora, ma prova a capirti solo quando invadi il suo spazio, fai un concerto in un palazzetto, se non puoi andare in televisione a cantare circondato dai fiori liguri, fai un post su Instagram che raggiunge milioni di utenti.
Cos’è, allora, più spaventosa, una parola violenta o il fatto di non riuscire a rendersi conto di dove sta e a chi parla, oggi, la vera cultura di massa? «Siamo la vostra serie tv preferita», diceva Tony Effe nel lontano 2016, quando la sua musica e i suoi riccioli erano lontani dalla prima serata della rete ammiraglia ma già molto vicini a Fedez, con cui all’epoca fioriva un sodalizio.
La trap è una serie tv, più che un genere musicale: ha i suoi personaggi, le sue trame, i suoi costumi di scena, i suoi macro-temi, i suoi tormentoni e i suoi spettatori fedeli. Vive di immagini, oltre che di suoni, e la parola, per quanto terribile o aliena possa suonare, è forse l’ultimo dei suoi vettori espressivi, dal momento che parla molto più una dentiera di diamanti che una melodia sanremese da canticchiare.
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