La vicenda della giornalista italiana ha rivelato il nostro rapporto con l’umanità e il dolore degli altri. Sono i social che ci deformano o le piattaforme si limitano a esibire l’ordinarietà della nostra miseria?
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
«Speriamo che la impicchino», mi ritrovo a leggere in un commento al post che ho scritto su Cecilia Sala, durante i giorni della prigionia nel carcere di Evin in Iran. Controllando il profilo dell’autore mi imbatto in una cascata di ricondivisioni e commenti pro-Iran e pro-Hamas. E poi, ancora, altrove, il fastidio, il cinismo, a tratti proprio l’odio, per la “figlia di papà”, quella che – a 17 anni, dettaglio omesso – aveva espresso riserve sulla questione dei marò (l’etica dei social non contempla distinzione tra la persona che siamo oggi e quella di dieci, quindici, vent’anni fa).
Tifoserie, euforia da ultrà: lo schema era, letteralmente, “a morte gli interisti”. Ho seguito la prigionia di Sala con intensità crescente, con una partecipazione inattesa, alla fine ossessiva, che io stesso non pensavo avrei provato. Arrivavano i giorni di festa, i brindisi, cucinavo, facevo avanti e indietro dalle case di amici e parenti ma, appena potevo, tornavo ad aprire le homepage dei quotidiani, mi sintonizzavo su telegiornali e talk dove l’incertezza smetteva almeno di essere solitaria. Dove nessuno sapeva, ma veniva chiamato a dire comunque qualcosa al cospetto di questa storia inquietante e piena di punti ciechi.
Nel frattempo, vedevo il corpo di questa giornalista di 29 anni messo in mezzo, rimpallato, tra le fazioni e le nevrosi camuffate da impegno, le fake news, i meme e il sarcasmo. Vedevo la sua faccia, ed è successo qualcosa: ho cominciato a immaginare.
Il palcoscenico dei social
La vicenda di Sala, per fortuna, si è risolta in tempi ragionevoli (unico caso in cui ho gioito del sovranismo di chi ci governa) eppure continuo a pensare a quel che ha rivelato, ma direi confermato, sul nostro rapporto con l’umanità e il dolore degli altri. Sulla contrazione del tempo digitale che inibisce di proiettarsi nell’esperienza altrui e rende anche le esperienze più radicali materiale su cui surfare con esaltata indifferenza, nonostante i resoconti a portata di mano, i dettagli, le telefonate angoscianti. Nonostante la possibilità dei maltrattamenti, delle vessazioni, della tortura. Sono i social che ci deformano, col loro palcoscenico perenne dove i toni più sono alti e più vengono premiati, o le piattaforme si limitano a scostare il velo ed esibire l’ordinarietà della nostra miseria?
Non credo sia stato ininfluente che Sala sia un giovane intellettuale di bell’aspetto, volitiva e capace: tutti elementi che mandano in cortocircuito il fragile equilibrio mentale del commentatore medio che, usa tutto – notizie, foto, opinioni, video – per sollevarsi un po’ dal disagio quotidiano. Il corpo di Cecilia Sala ha subito iniziato a polarizzare: la povera “ragazza” da trarre in salvo – approccio funzionale lo stesso, ma dimentico delle competenze, e credo anche della personalità della giornalista –, oppure la sgallettata su di giri e fuori contesto, quella che "poteva stare a casa sua”, o in qualche studio ad ammiccare o amoreggiare, quella che “se l’è andata a cercare”.
Slanci e reazioni
Alla notizia del suo arresto, il primo giorno del 2025, avevo scritto: “Le poche volte che ci siamo incrociati ti ho osservata in silenzio e basta. La gran parte di noi quello che fai tu non lo farebbe mai: per coraggio, passione, comprensione, intuizione, velocità, forza. Ti osservavo in un ristorante, prima o dopo un pranzo veloce, dietro le quinte, poco prima di un incontro, con molto rispetto e suggestione, come una specie di supereroina, una di quelle venerate quando ero piccolo. Invece non sei un personaggio immaginario: sei una donna di neanche trent’anni, che ha scelto la variante più complessa e rischiosa di un lavoro importante, dalla realtà vertiginosa del tempo presente. Non sono bravo a rompere il ghiaccio, farmi avanti, legare, non lo faccio mai, specie con quelli, quelle, che mi piacciono.
Sono stato zitto, ed è anche per questo che, ora, scrivo. Per offrirti nell’impotenza, ora che avrai attorno solo parole enigmatiche e silenzio, le parole che avrei voluto dirti allora. Oggi è il primo gennaio, ed esattamente come ieri, e i giorni precedenti, io continuo a pensare a Cecilia Sala. Mi soffermo su ogni trasmissione in cui si parla di lei, recupero ogni pezzo, commento, intervista. Chissà cos’hai fatto il 24 sera, il 25: chissà con che pensieri hai attraversato questa soglia sempre affollata di emozioni contrastanti del Capodanno. Chissà quanto hai capito della situazione in cui sei, quanto ti hanno riferito, spiegato, chissà quanto ti hanno mentito. Spero si faccia prestissimo, anzi m’auguro stia già accadendo, adesso, tra un’ora, un giorno al massimo”.
Un post composto di slancio, spontaneamente, senza grandi costruzioni o retropensieri: un post che era solo un modo per fare qualcosa (di inutile, ma comunque qualcosa) verso una persona che sentivo, a tratti immotivatamente, vicina. Una persona che avevo conosciuto, ma in modo più superficiale di quel che avrei voluto. M’è capitato di leggere, sempre nei commenti, cose come: “stucchevole”, “da libro Cuore”, “cringe”, “santa subito”, “finiscila con ‘ste cazzate da groupie”, “devi curarti”, “bella poesiola”, “che uomo patetico”, “ti sei pulito la lingua?”. A tratti, raggiunto da esternazioni del genere, mi sono vergognato: ho pensato davvero di aver esagerato, di aver concesso troppo al flusso emotivo e di essermi rivelato per il povero cristo delle case popolari che sono, impermeabile a lauree, frequentazioni, pagine lette e pagine scritte. Ma la proiezione empatica ha esattamente questo potere inaudito: permette di intuire qualcosa di come può essere trovarsi al freddo, in isolamento, nella cella di uno dei carceri peggiori al mondo, senza sapere che deciderà di fare di te un regime dittatoriale noto per il suo odio mortifero verso le donne, anche se ti trovi rannicchiato sul divano a Milano, coi gatti, la coperta e il riscaldamento.
Empatia
L’empatia, termine abusatissimo, e disgraziatamente quasi impronunciabile, apre i confini dell’io permettendo di accedere alle condizioni di un altro io. È una facoltà, un organo, si potrebbe dire. Fondamentale, e più misterioso di quel che si dice, è stato indagato da alcuni dei miei filosofi preferiti. Edith Stein, allieva di Husserl, e Max Scheler: fenomenologi particolarmente interessati alla vita emotiva, che, all’inizio del Novecento, nei loro saggi, hanno mostrato quanto seriamente dovrebbero essere maneggiate le nostre emozioni. Buona parte della storia del pensiero occidentale ha cercato di delegittimare il sentire, la vita affettiva, squalificando come inferiori, sciocche, caotiche, autoreferenziali – e femminili – le nostre esperienze emotive.
E i social per certi versi hanno estremizzato (e capitalizzato) questo fraintendimento: sulle piattaforme la reattività è spesso, sì, a base emotiva, ma le emozioni circolano solo dentro il recinto, prevedibile, del proprio gruppo. Con speculare, altrettanta facilità, si recide di netto il legame che, tramite le emozioni, può condurre a mettersi nei panni dell’altro, aprendo il campo di una forma di conoscenza indiretta.
L’empatia, se assunta realmente per quel che è, si rivela una facoltà dissidente, eretica, che non conosce partiti, clan, fazioni. Ha molto a che fare, infatti, come si sa, con la letteratura: traccia un piano comune, ci ricorda il valore delle (fragili) fondamenta dell’umano. Simone Weil direbbe che parla del nostro livello, per così dire, impersonale: quel grado zero di vulnerabilità che sta alla base di qualsiasi carattere o personalità, e imporrebbe di mettere tra parentesi, almeno per un momento, ideologie e giudizi, interessi e ideali di parte.
«Dalla prima infanzia sino alla tomba», scrive Weil, «qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini compiuti, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male. È questo, anzitutto, che è sacro in ogni essere umano». Niente di più lontano da ciò che, sempre più spesso, capita di vedere sguinzagliato da queste parti.
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