L’aumento di attenzione verso l’uso della lettera schwa, dell’asterisco, della desinenza -u, ovvero intorno alle proposte per rendere la lingua italiana un luogo in cui possano trovare espressione e pari dignità tutte le soggettività, sta provocando una serie crescente di reazioni ostili. Spesso tali reazioni sono sostenute anche da firme illustri che, però, non si occupano in modo specifico del rapporto tra lingua e identità di genere e spesso forniscono informazioni approssimative (se non proprio false), aumentando la confusione e il sospetto verso queste proposte.

Vale la pena di ricordare di cosa stiamo parlando. Da una decina di anni, in vari gruppi nell’ambito dell’attivismo Lgbtq+ si ricorre a strategie linguistiche che aumentano le potenzialità espressive della lingua. In breve: per superare il binarismo di genere riprodotto dalla nostra grammatica (tale per cui quando ci riferiamo a noi o a un’altra persona, o a un gruppo di persone, possiamo ricorrere solo o al maschile o al femminile), si aggiungono altre terminazioni (come la schwa: -ə, che ha anche una realizzazione fonica) non riconducibili a un genere grammaticale già noto. Dunque, a seconda della identità di genere cui ci si riferisce, si potrà scegliere, per esempio, tra ragazzo, ragazza, ragazzə (o ragazzu).

Asterischi e schwa

Tali pratiche linguistiche in questi ultimi due anni sono arrivate a un pubblico più ampio anche grazie ai social network, acceleratori dei mutamenti linguistici che nel corso del Novecento avvenivano con più lentezza (cfr. Tullio De Mauro, Storia linguistica dell'Italia unita, Laterza, 1963). Troviamo asterischi e schwa non solo nella comunicazione social ma anche nei libri, soprattutto di saggistica (di Effequ, Eris, Asterisco, per citare alcune case editrici), nei manifesti (Lucca Comics&Games 2020), in pagine web di eventi (per esempio SalTo+ del Salone del Libro di Torino), in tessere associative, didascalie di mostre... fino alle tastiere degli smartphone con sistema operativo Android e iOs.

Queste nuove proposte magari non entreranno mai nell’italiano standard e si esauriranno nel giro di poco tempo come una moda effimera; oppure, al contrario, continueranno a diffondersi fino a modificare – almeno in taluni contesti – l’italiano.

Ad oggi mancano degli studi scientifici che, col supporto di dati, possano dimostrare efficacia, funzionamento o malfunzionamento di simili forme; mancano anche perché in ambito accademico non viene data importanza a questi temi e alle/agli studenti che vogliano indagarli con gli strumenti della linguistica viene vivamente “sconsigliato” di farlo.

Esistono, però, testi scritti (oltre, ovviamente, alla produzione orale) grazie ai quali è possibile verificare come funziona la ricezione di un brano in cui, accanto alle marche di genere già presenti nella nostra lingua, compaiano anche altre (-ə, -u, ...), dove necessario alla comunicazione. Queste nuove marche di genere sono utili per parlare di persone che non si identificano nel maschile o nel femminile, ma sono funzionali anche, per la brevità che assicurano, quando ci si rivolge a gruppi misti o quando si fa riferimento a un ruolo, una professione, un titolo in modo generico. Per esempio, invece di ricorrere al maschile sovraesteso – che non è neutro perché porta sempre con sé l’idea di un corpo maschile – e dire “il lettore”, posso ricorrere all’espressione “chi legge” oppure “ə lettorə”; quando do il benvenuto a un incontro posso esordire con un «Buongiorno a tutte, tuttз, tutti», sottolineando così l’attenzione verso diverse soggettività.

Narrazioni tossiche

Il diffondersi di queste strategie sta scatenando reazioni che, lungi dall’affrontare in modo scientifico il fenomeno, lo condannano a priori usando espressioni anche molto violente (per esempio “sangue sullo schwa”) e immettendo nel discorso una serie di informazioni fuorvianti, che vanno a costruire un frame, cioè una cornice narrativa, precisa: quella della “dittatura del politicamente corretto”.

Abbiamo già visto in azione il meccanismo di produzione di narrazioni tossiche su un tema attorno al quale si sta consolidando un dibattito sociale capace di modificare lo status quo e portare a un allargamento dei diritti: al tempo del dibattito sulle unioni civili e del ddl Cirinnà, si è creata la narrazione sull’“ideologia del gender” (Sara Garbagnoli e Massimo Prearo ne hanno sapientemente ricostruito la vicenda nel loro La crociata “anti-gender”, Kaplan, 2018). Da allora la parola “gender” è diventata una minaccia per l’intera società; è uno spauracchio che si insinua in dibattiti, manifestazioni, articoli giornalistici inquinando il discorso in modo funzionale a fermare gli interventi per il depotenziamento di stereotipi legati a identità di genere e orientamenti sessuali.

Questo è un tempo che favorisce la costruzione di narrazioni tossiche: c’è il ddl Zan sospeso dal senato e le strategie linguistiche innovative, per quanto usate ancora con incertezza, si stanno diffondendo al di là dei ristretti ambiti in cui erano nate arrivando a “invadere” gli spazi dell’informazione mainstream.

Strategie linguistiche

Esattamente come è successo con l’invenzione dell’“ideologia gender”, anche ora si sta inquinando il discorso pubblico ripetendo sempre le stesse falsità e preannunciando scenari apocalittici. Si costruisce, così, una narrazione che sovverte in modo paradossale le caratteristiche del fenomeno. Per esempio, si sostiene che tali strategie linguistiche siano “imposte”, senza però mai riportare una fonte che attesti tale imposizione.

Così come si afferma che mirino a “neutralizzare” quando, invece, il loro scopo è rendere visibili le differenti soggettività, ammetterle nello spazio simbolico e politico della lingua combattendo quell’ostracismo cui sono condannate dall’uso tradizionale dell’italiano; un uso che prevede quel maschile über alles a cui nostalgicamente Paolo D’Achille, docente di Linguistica all’Università Roma Tre, vorrebbe tanto tornare (in un parere dato per l’Accademia della Crusca): una mossa, la sua, in cui è evidente come istanze di soggettività marginalizzate vengano strumentalizzate per riportarci indietro di cinquant’anni.

Paura di cambiare

Si compie un rovesciamento anche dei ruoli delle parti coinvolte: chi si scaglia contro le strategie innovative (e talvolta anche contro chi le usa) alimentando un clima di tensione, poi, di fronte a reazioni e critiche, si dipinge come vittima innocente della “dittatura del politicamente corretto”. Insomma, nasconde la mano dopo aver lanciato il sasso... e prima di lanciarne un altro. Non solo si attaccano con veemenza le proposte per superare il binarismo esprimendosi in modo superficiale e provocatorio, ma non si tematizza mai il proprio posizionamento, che sarebbe invece la prima mossa per poter affrontare la questione onestamente e con competenza.

Non vale nulla l’intervento di esperte/i/u che si prodigano a spiegare i significati di -u, schwa, asterischi, la storia e la validità dei queer studies: non interessa far luce, perché la confusione è funzionale alla costruzione di una narrazione tossica. Dunque all’ennesimo articolo, magari firmato da un grande nome, nasca il sano sospetto di fronte a certe espressioni, perché sono la spia che il discorso non ha nulla di scientifico: sotto il manto di termini grammaticali, si nasconde una opposizione che si gioca sul piano politico e culturale.

Perché, a ben guardare alla storia, la lingua si autotutela: sopravvivono alle mode del momento solo quelle innovazioni che funzionano per il sistema, ovvero che permettono di trasmettere in modo chiaro un concetto e che sanno, nel contempo, rispondere alle nuove esigenze comunicative che si fanno strada. Insomma, perché impegnare così tante energie per scagliarsi contro asterischi e schwa dicendo che non funzioneranno mai, che sono vie pericolose e che chi li usa è ignorante? L’unica spiegazione possibile, di fronte a un simile atteggiamento, è la paura verso il cambiamento socio-culturale.

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