Probabilmente era venerdì, perché era una giornata infinita. I venerdì diventano infiniti quando il buio non vuole arrivare e la luce sembra amplificare anche gli strilli dei bambini.

Doveva essere la fine di maggio perché faceva caldo. Ricordo Melina corrermi incontro con i capelli bagnati di sudore. Sotto le unghie si vedeva l’ombra marrone di terra e di pelle morta delle caviglie. Se le grattava per le punture delle prime zanzare e perché le strusciava nell’erba alta in cui cercava isole del tesoro, templi maledetti, sottomarini.

Il sole pareva inchiodato in mezzo al cielo che non era né azzurro né grigio: era del colore di certe felpe in acetato che portano gli italoamericani nei film di Spike Lee e, nel nostro quartiere, gli spacciatori o gli aspiranti tali. L’ombra degli alberi era un’area in cui rifugiarsi a riprendere fiato. Questo potrebbe farmi pensare che non fosse maggio, ma luglio. Però è impossibile, perché a luglio il campo estivo era in un’altra delle scuole di zona e quel pomeriggio, questo lo ricordo come se fosse mezz’ora fa, Melina e io ci trovavamo nel giardino della scuola materna che frequentavamo. Ricordo anche che, già allora, l’espressione “scuola materna” la faceva rabbrividire.

Immaginazione e personalità

Melina aveva le braccia secche e indossava uno di quei coordinati canotta-pantaloncino che sua madre comprava perché fosse in ordine e dignitosa, però già da lontano si coglieva la modestia del completo. Lo si capiva dalla stampa, un disegno a tema spaziale di quelli che vorrebbero essere universali nella rappresentazione dell’infanzia, ma che di universale hanno solo la mancanza di personalità. Per indossare una cosa del genere, dovevi essere povero di soldi o di gusto e Melina era povera di soldi ma ricchissima di immaginazione; infatti era molto contenta che il blu dei suoi sandali fosse lo stesso del bordino della spallina giallo smorto.

Quanto alla personalità, purtroppo non avrebbe mai capito quanto ne fosse ricca. Se solo si fosse mai guardata come la vedevo io, se fosse stata consapevole del suo essere speciale, non avrebbe portato i vestiti dei suoi cugini e fratelli con l’imbarazzo di chi si sente un rattoppo, un errore, un elemento di troppo. Avrebbe piuttosto assunto lo stesso atteggiamento con cui, vent’anni dopo, le avrei visto indossare le pelli e le lacrime di uomini più o meno bestiali che si rendevano conto sempre troppo tardi che era la mansueta e docile Melina a mangiare loro, e non viceversa.

Invece stava lì, a giocare da sola perché era sempre alla ricerca del suo senso all’interno del gruppo. Parlava quasi più volentieri con gli adulti, salvo poi trovarsi alla fine dell’anno scolastico a fare amicizia con moltissimi bambini nuovi e sorprendersi che fino ad allora non si fossero mai visti né parlati, stupendosi che fosse così facile socializzare.

Scatti e ferite

La fine dell’anno era il momento in cui Melina si concedeva di dimenticarsi di essere diversa dagli altri: qualcuno direbbe più sensibile, altri più introversa. I più la consideravano semplicemente strana. Penso di aver capito di essere innamorato quel caldissimo pomeriggio di fine maggio, anche se qualche sospetto mi era venuto già il giorno in cui tratteneva a fatica le lacrime perché le maestre insistevano a volerla fotografare mentre mangiava. E lei, che ha sempre mangiato molto velocemente, aveva quasi già finito mentre loro, sentendosi proprio simpatiche, le dicevano che sembrava uno struzzo. Nessun bambino vuole somigliare a uno struzzo. Melina poi non voleva essere nessun animale e aveva capito, nel caldo del cortile, che l’associazione al nome di un animale poteva essere usata da alcuni umani per offenderne altri. Ad esempio sapeva che se, appena tagliati i capelli, suo padre le diceva che somigliava a una scimmia, non era per dirle che stava bene.

Tuttavia, essendo sveglia come un mammifero marino, Melina aveva piuttosto chiaro che tante volte le persone provocano ferite con parole o gesti in modo del tutto involontario, e che farlo notare potrebbe generare dolore a sua volta. Perciò preferiva incassare, trovare una spiegazione all’accaduto e giustificare la mediocrità del male perché la vita è difficile, dicevano i grandi, e perché nessuno, di base, è cattivo.

Allo stesso tempo Melina capiva che i sensi di colpa di sua madre nel lasciarla a scuola prima, al campo estivo poi, per dodici ore al giorno, le procuravano un dolore decisamente più intenso di quello che lei provava quando la fotografavano a bocca piena. Così, perché quella donna avesse un briciolo di serenità nella certezza di non aver abbandonato la sua creatura, lasciava che scattassero.

L’albero e la cavalletta

Quel caldissimo venerdì in cui il sole non accennava a spostarsi dal centro del cielo, ero seduto anch’io in uno stato di semi-solitudine. Mi sentivo a metà tra un carlino e un panda perché ero uno di quei bambini con le guance rosse, le gambe – diceva mia nonna – da morsicare, i riccioli biondi e il faccino da putto.

Non mi piaceva giocare alla guerra e avevo paura dei vermi. Piangevo spesso, portavo gli occhiali e in quel periodo avevo pure il braccio ingessato perché, quando avevo provato a essere un pirata coraggioso, non era andata come speravo. Le maestre mi tenevano quindi vicino a loro perché non mi ferissi di nuovo e i miei pomeriggi avevano il sottofondo di storie di suocere, tovaglie, frullatori multifunzione, altre colleghe più o meno apprezzate, genitori scortesi.

Non so se ho visto prima loro alzarsi in uno stato incerto tra arrabbiatura e spavento o Melina cadere dall’albero. So solo che sono corso come non immaginavo di poter fare e che ho sentito qualcosa che non pensavo si potesse provare per un essere

umano diverso dalla propria madre.

La maestra Marina, con il tono della paura che sembra un rimprovero, continuava a chiederle se andasse tutto bene e Melina, che con la faccia sporca di terra aveva chiaro di non essere lei – nemmeno questa volta – quella più agitata, si scusava per non essere stata attenta, per essersi arrampicata nonostante fosse proibito, per aver dimenticato che, se non ci si tiene, dagli alberi si cade.

Con un sorriso luminoso, decisamente in contrasto con la faccia sporca, nera e impolverata, ha tirato fuori dalla tasca una cavalletta con un’ala sola. Me l’ha data dicendo che era caduta dall’albero quando era riuscita con estrema fatica a catturarla perché, nonostante avesse un’ala sola, riusciva a saltare veramente in alto.

Mentre la prendevo non ho provato nessuna paura. Sono cascato dentro quegli occhi scuri pieni di luce e meraviglia, e ho corso tutto il resto dell’estate con buona pace dell’ansia della maestra Marina, tenendo stretta la mano della bambina più bella mai passata sulla Terra, quella che per la botta da caduta aveva vinto il soprannome di “naso di porco”.


Questo racconto è tratto da Ansia da felicità (Rizzoli 2023), il primo libro di Malika Ayane una delle cantautrici italiane più originali e amate. È una raccolta di racconti, di personaggi con sensibilità diverse, ma tutti affannosamente alla ricerca della felicità. Melina è come i gatti. Quando qualcosa è grave, non si fa trovare o non lo lascia capire. Nina si sente ostaggio del mostro. Allora mette un vestito che da più di dieci anni le sta da dio, ma non è mai uscito da casa.

Aspettava, più paziente del mostro, un evento e una Nina degni di lui. Il Raptor arriva quando la principessa sfiora l’abisso. E si posa, paziente. Miranda fa scintille tra le lenzuola. E per un lenzuolo fugge via. Marija, quando la situazione è serissima, tira fuori la tovaglia nera. Ma ora ha deciso di farsene un abito.

Madeleine presidia il divano rosa del Distratto, suo locale di fiducia, casa dei momenti così storti da poter essere sfogati in un luogo pubblico, ma nobili a sufficienza per non diventare pettegolezzi.

Tutti i protagonisti di questa sorprendente raccolta di racconti, prima prova letteraria di Malika Ayane, vivono in uno stato costante di ansia da felicità. La realtà non è mai definita, bianca o nera, ma ci si presenta in un caleidoscopio di sfumature cangianti, per cui bastano un attimo, un imprevisto, un bicchiere in più per

cambiare di segno gli stati d’animo che ci guidano nelle nostre giornate. La felicità può sbocciare improvvisa o avvizzirsi perché ci siamo incastrati negli sguardi di qualcuno. Ma quanto conta guardarci dentro e quanto rispecchiarci negli altri?

© Riproduzione riservata