L’attivista siciliana: «In Italia non c’è consapevolezza dell’intersezione tra femminismo e questioni geografiche. Ci sono tante realtà femministe senza soldi e capacità progettuale, la vita media delle associazioni è di due anni. Ma il volontariato non basta. E quasi nessuno si occupa di misurare il loro impatto, basta solo mostrarsi: è un problema enorme». Sull’attivismo nel Meridione «non ci sono dati, eppure esiste una ricchezza incredibile». I suoi progetti futuri
«A volte mi dicono esagerata quando faccio notare le cose, ma per me è un esercizio di pensiero critico. Guardi una cosa e non te la bevi, rifletti». Nel “femminismo terrone” di Claudia Fauzia, attivista siciliana ed esperta di studi di genere, la riflessione femminista si interseca alla questione meridionale. Per lei, l’essere terrona è un atto politico di resistenza e la lotta alle differenze di genere cammina a fianco a quella per le disuguaglianze geografiche. Ai movimenti femministi in Italia servono fondi e strategie a lungo termine. Il suo prossimo progetto è un’azione politica al sud.
Com’è nata la sua riflessione sul “femminismo terrone”?
«Ho identificato un vuoto e l’ho voluto colmare, non mi sentivo identificata. Ma non è stata una cosa molto pensata, ho sentito l’esigenza istintiva di parlare e l’ho fatto con i social. Il consenso che riscuotevo mi ha fatto capire che non era solo una mia esigenza, e che bisognava studiare queste cose. Non esisteva un libro sul “femminismo terrone” prima del nostro (Femminismo terrone, 2024) e riuscire a mettere insieme le cose porta una fatica estrema. A volte non ti senti neanche legittimato a pensarle certe cose, devi leggere e confrontarti con gli altri per capire che quello che senti è un’esigenza politica. Abbiamo fondato un’associazione (poi chiusa) che per prima in Italia si è dichiarata femminista e meridionalista. Anche il libro ha superato le nostre aspettative, come una scintilla di ciò che deve ancora accadere: abbiamo tentato di aprire una strada e adesso quello che deve succedere è una presa di posizione e di parola delle realtà e le persone che sentono di appartenere al “femminismo terrone”».
Ha raccontato di essersi ispirata al movimento femminista andaluso. Ma ci sono in Italia delle figure o dei movimenti che si avvicinavano a queste idee?
«In Italia non c’era consapevolezza di un’intersezione tra femminismo e questioni geografiche, manca una riflessione ampia, strutturata, nuova su questi temi, presente invece in Spagna. Però ci sono figure che mi hanno ispirata dal punto di vista dell’orgoglio territoriale, anche se nessuno incarnava il femminismo terrone, erano realtà che facevano impresa sociale, attivismo al sud, ma non consapevoli del fatto che la geografia influenzava il loro agire».
Perché prima di adesso nessuno aveva associato la questione meridionale a quella femminista?
«Al sud non riteniamo che ciò che accada da noi sia interessante da raccontare, quindi, secondo me, nessuno pensava fosse sensato parlare di un “femminismo terrone”. La seconda cosa è che i meridionalisti che ci hanno preceduto hanno rappresentato posizioni neoborboniche, minando tutti i discorsi legati alla questione meridionale: è finita per essere una questione di superiorità delle persone del sud sulle altre. Questo ha impedito di tornare a fare discorsi legati al tema che fossero più di matrice marxista-gramsciana. Solo adesso mi sembra che si stia riscoprendo questa cosa. Una terza ragione è che mancano tanti dati su quello che accade al sud: quando per lavoro ho mappato tutte le realtà femministe meridionali, ho scoperto una ricchezza incredibile».
Secondo lei, manca qualcosa ai movimenti femministi, in particolare nel sud Italia?
«Manca tantissimo e non solo al sud. Intanto una consapevolezza sulla sostenibilità economica. Il femminismo in Italia è poverissimo e si disinteressa dei soldi. Siamo costellate di piccole realtà femministe senza soldi e capacità progettuale, non si interessano alla filantropia e giustificano di non sapere ritenendosi anticapitaliste. Tanto è che la vita media delle associazioni è di due anni: non ce la si fa, tutti dobbiamo lavorare e il volontariato non regge la sfida del tempo.
Poi noto che la quasi totalità delle esperienze femministe attive adesso è disinteressata a misurare il suo impatto: spesso è un femminismo performativo, che organizza le manifestazioni ma perché facciamo le cose, in che territori, sono domande che non ci facciamo, perché ci basta mostrare e dimostrarci di essere delle brave femministe. È un problema enorme: non ci occupiamo di problemi evidenti e reali che causano le disuguaglianze di genere. Manca una struttura, una strategia a lungo termine. E poi siamo estremamente frammentate».
Ha portato il “femminismo terrone” alla Camera: cosa ha raccontato e quali sono i progetti futuri?
«Siamo state invitate dal deputato Toni Ricciardi (del Pd, ndr), su suggerimento di una sua collaboratrice, e abbiamo presentato gli intenti del “femminismo terrone” come manifesto politico. È stato interessante entrare negli spazi del potere, perché l’interesse di qualcuno verso ciò che stiamo facendo denota una certa rilevanza del nostro posizionamento. Dei miei progetti futuri posso dire che sto lavorando per creare una nuova realtà sociale, che risponda ai criteri di strutturazione di cui parlavo prima e interpreti le istanze del femminismo terrone. È importante non rimanere sul piano delle idee, ma agire. Voglio fare un salto: creare un gruppo di persone che abbia un impatto».
Si realizzerà in un prossimo futuro?
«Accadrà con certezza nel 2025... ci lavoro da qualche anno».
Parla spesso di discriminazione linguistica rispetto alle parlate meridionali. Crede che la soluzione sia un’educazione linguistica in questo senso?
«La discriminazione linguistica non è una causa, ma un effetto. Nasce dalle disuguaglianze sociali, è legata alla questione antimeridionale, per risolverla bisognerebbe risolvere quelle. Insisto tanto sulla questione linguistica perché è la prima frontiera di riconoscibilità dei meridionali, il problema è che il nostro accento è associato a tutti gli stereotipi sulla meridionalità. Una cosa auspicabile sarebbe alimentare così tanto un sud femminista quasi da usare il dialetto, l’accento, con sfrontatezza, per cambiare la percezione dell’Italia su alcune parlate. Che figata sarebbe se associassimo l’accento siciliano non più alla mafia, ma al femminismo?».
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