La storia dei dati collegati ai femminicidi è una storia di dati che mancano, o meglio, che mancano a livello istituzionale. In Italia, infatti, non esiste una banca dati pubblica che fornisce le statistiche sui femminicidi. Non sono disponibili informazioni disaggregate che permettono di sapere quante donne uccise avevano subìto stalking, se avevano dei figli, se gli autori indossavano il braccialetto elettronico. Così come non abbiamo dati pubblici sui tentati femminicidi. E questo perché non c’è un sito ministeriale che fornisce in modo puntuale queste informazioni. Non c’è in Italia, ma nemmeno in Francia, in Russia, negli Stati Uniti, e in varie altre parti del mondo.

Eppure, i dati servono, e non solo per quantificare i fenomeni, ma soprattutto per comprenderli e capire come arginarli. «I dati, se disponibili, rendono visibile ciò che è sistematicamente reso invisibile, generano consapevolezza pubblica, alimentano il dibattito politico e forniscono strumenti per la giustizia e la prevenzione». A scriverlo è la giornalista, divulgatrice ed esperta di dati Donata Columbro nel suo ultimo libro Perché contare i femminicidi è un atto politico (Feltrinelli, 2025), in libreria dal 16 settembre.

I dati dal basso

A far fronte alle mancanze istituzionali ci pensano gruppi e associazioni, a volte anche persone singole. Tra le prime a monitorare i casi di femminicidio in Italia c’è stata la Casa delle donne di Bologna che, insieme a un gruppo di attiviste, dal 2005 produce un archivio di nomi, storie e testimonianze.

Come spiega Columbro nel suo libro, il loro primo bollettino è un foglio A4, su cui avevano elencato le donne uccise, con data, città, nome e cognome della vittima, quelli dell’omicida, il movente, la storia e le fonti. Quell’elenco negli anni è diventato un file in formato tabellare, costantemente aggiornato grazie allo studio quotidiano delle notizie pubblicate sulla stampa.

Un lavoro simile è fatto anche da Non una di meno (Nudm) che ogni 8 del mese aggiorna la tabella delle vittime di femminicidi, lesbicidi e trans*cidi con numerose informazioni di contesto: dal paese di origine della vittima, alla relazione con l’omicida, fino alla presenza di eventuali figlie o figli.

Le raccolte di dati dal basso sui femminicidi non si limitano all’Italia. Tra le tante, c’è María Salguero Bañuelos, definita da Columbro nel libro «una delle prime persone che ha iniziato a produrre una raccolta statistica autonoma sui femminicidi attingendo notizie dai media messicani, quando nessuno si stava rendendo conto della portata del fenomeno».

I lavori di Nudm, quelli della Casa delle donne, quelli di María Salguero Bañuelos e di tanti altri sono tutti esempi di dati ricercati con un approccio femminista. È quello che prende il nome di “femminismo dei dati” e che Columbro definisce come «un approccio teorico, ma anche un insieme di pratiche per guardare alla scienza dei dati e alla statistica dal punto di vista delle oppressioni sistemiche che esistono nella società».

Ma sono affidabili?

I dati delle raccolte dal basso spesso sono visti dall’opinione pubblica come meno oggettivi e, quindi, meno affidabili. «Il valore dei dati raccolti dal basso è diverso da quello dei dati istituzionali e per me ha un doppio valore: quello di colmare un vuoto – di solito, infatti, le raccolte dal basso nascono perché le istituzioni non considerano un certo fenomeno o quando lo quantificano, non vanno a cercare i dettagli – ma soprattutto mettono in evidenza come la produzione di dati sia legata al potere e sia una questione politica», ha detto l’autrice a Domani. «Sono fonti che possono essere usate in egual modo, raccontando e spiegando quali sono le differenze nei metodi di raccolta dati, differenze che spesso partono anche semplicemente da una definizione».

Columbro fa riferimento alla parola “femminicidio”. Non esiste, infatti, una definizione comune del fenomeno. Per l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige) si tratta dell’«uccisione di una donna o di una ragazza a causa del suo genere e può assumere diverse forme, come l’omicidio di donne a seguito della violenza del partner intimo». Per molte associazioni e gruppi è un fenomeno più ampio, che comprende numerosi altri fattori oltre alla relazione con l’omicida.

Nel 2022, l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine in collaborazione con UN Women ha fornito lo strumento internazionale di riferimento per capire come misurare la violenza di genere. Si tratta di una cornice che inquadra il fenomeno tenendo conto di molti aspetti oltre alla relazione tra l’omicida e la vittima, come l’intenzionalità dell’autore di uccidere o causare gravi lesioni alla vittima e la relazione di potere sbilanciata tra uomini e donne.

«Di solito, a livello istituzionale viene usata come definizione di femminicidio quello avvenuto all’interno delle mura domestiche, perché in qualche modo è il più semplice da individuare. Ma va tenuto in considerazione che se guardo solo a quel tipo di dati sto guardando a una statistica sottostimata», ha aggiunto ancora Columbro.

Un libro per tutti

Dal modo in cui vengono contati i femminicidi ai dati che mancano, ma di cui avremmo bisogno. In Perché contare i femminicidi è un atto politico Columbro esplora una realtà che tutti e tutte dovrebbero conoscere per comprendere come i femminicidi raccontati al telegiornale non siano episodi isolati o disgrazie, né tantomeno questioni private, ma tasselli di un sistema più ampio e radicato che va oltre il caso in sé.

«Spero che questo libro venga letto e discusso da due tipi di persone: da chi non pensa di essere coinvolto perché la violenza di genere è qualcosa che avviene molto lontano da lui; e da chi minimizza il problema perché crede non riguardi gli italiani, o perché pensa che riguardi solo “pochi psicopatici”», ha aggiunto la giornalista. «Occuparsi di violenza di genere è una questione politica e sociale e i dati ci aiutano a vederlo».


Perché contare i femminicidi è un atto politico (Feltrinelli 2025, pp. 208, euro 18) è un libro di Donata Columbro 

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