Una fra le ultime scene della serie si è realizzata dieci giorni fa sul prato di Marassi. Dopo soli quattro minuti della gara contro il Genoa la Roma pasticcia un tentativo di far partire dalle retrovie l’azione d’attacco.

Il meccanismo s’inceppa quando il pallone giunge sulla fascia sinistra a Spinazzola, che sbaglia per ben tre volte l’intervento e finisce per regalare palla sulla soglia della propria trequarti ai genoani. Che dal canto loro impiegano cinque secondi e tre passaggi per mandare Gudmundsson in gol e aprire la strada verso il 4-1 finale.

Sembrerebbe soltanto un episodio di cronaca e invece è un caso esemplare di quell’esercizio di masochismo che nel calcio prende il nome di costruzione dal basso. Che da metodo per la conduzione dell’azione riservato alle squadre tecnicamente più dotate si è trasformata in una sorta di coazione.

Un obbligo mai dichiarato che prende il via con l’inizio della stagione 2019-20, cioè dal momento in cui entra in vigore la riforma della regola 16 del gioco, che porta il titolo “Il calcio di rinvio”.
La nuova disciplina tracciata dall’International Football Association Board (Ifab, l’organo che presiede alla gestione e alla riforma del regolamento) sancisce che i calciatori della squadra che rimette in gioco possono toccare il pallone anche prima che questo esca dall’area di rigore.

L’effetto è che essi hanno facoltà di cominciare a scambiare palla entro la propria area. Che significa avviare la costruzione del gioco da un punto molto prossimo alla propria linea del pericolo, cioè la linea di porta, dentro quello spazio del rischio estremo che è la propria area di rigore.

Una facoltà convertita in obbligo morale

Ciò che dalla novellata regola 16 viene affermata è dunque un’opzione, non un obbligo. E invece, vista la pressoché uniforme scelta di costruire “dal bassissimo”, pare proprio che l’Ifab abbia sancito un obbligo. Che se non è regolamentare sembra proprio avere un profilo morale, come fosse legato a un codice d’onore.

D’improvviso rimettere lungo da fondo campo si trasforma in un gesto ch’è premessa d’uno stigma di primitivismo e perciò espone al pubblico disprezzo. Meno peggio, allora, avviare quegli scambi orizzontali che si trasformano in diagonali nel tentativo di guadagnare metri di campo, ma poi vedono tornare la sfera indietro in un confuso disegno di tutte le forme del trapezio: isoscele, rettangolo, scaleno.

E mentre si osserva articolare quegli esercizi di geometria piana sul terreno verde, pura balbuzie pallonara, si avverte addosso la sensazione di soffrire per loro, per quei calciatori che tenendo palla dovrebbero attaccare ma in realtà si stanno difendendo.

Cavalli imbrigliati nella giostra che li obbliga a girare secondo una dinamica eterodiretta, quando invece l’istinto di conservazione comanderebbe di fuggire bradi. E per loro la fuga corrisponderebbe a compiere il solo gesto sensato in quella circostanza: mandar via il pallone prima possibile da lì, e fare in modo che le cose tornino al loro ordine naturale, con gli attaccanti di parte propria che fanno gli attaccanti portando il pallone e i difendenti di parte avversa che fanno i difendenti provando a rintuzzare.

Diceva il professor Scoglio

Tornando allo specifico della scena di Marassi, è beffardo che questa si sia consumata nel campo che è stato anche uno dei regni tattici del professor Franco Scoglio. Che pure non era esente da integralismi, quanto a visione del calcio come organizzazione scientifica del lavoro. Ma che se si trattava di permanenza del pallone in zona del pericolo aveva le idee molto chiare, spicce: via da lì nel tempo più ristretto possibile.

Proprio nei giorni in cui allenava il Genoa, Scoglio raccontò durante un’intervista che alle sue squadre impartiva disposizioni su cosa fare quando si era in possesso di palla. Quelle disposizioni erano differenziate rispetto a tre diverse porzioni di campo: nei primi quaranta metri la palla va soltanto spostata in avanti nel modo più semplice, nei secondi quaranta metri si può manovrare ma senza rischio, negli ultimi trenta metri si può azzardare, ché tanto anche se si perde palla a quelle altezze rimangono almeno 70 metri per rimediare.

Adesso il mondo si rovescia perché l’azzardo è stato spostato nei primi trenta metri di campo e rimane da spiegare quale sia il motivo di questo mutamento.

La razionalizzazione capitalista

Ma chi glielo fa fare? Risposta impossibile a questo interrogativo, a parte prendere per buona la bizzarra tesi per cui i possibili vantaggi della costruzione dal basso compensino i rischi concreti. Meglio guardare alla linea evolutiva che ha investito il gioco del calcio a partire dall’inizio degli anni Novanta e ne ha fatto l’ultimo campo della razionalizzazione capitalista.

Il calcio è storicamente più refrattario a essere disciplinato nel movimento individuale e collettivo, fra tutti gli sport di squadra. Tutti gli altri sport danno vita a configurazioni compatte, con la squadra attaccante e quella difendente che si muovono come se fossero un unico corpo coreografico. Una dinamica di co-petizione, mix fra cooperazione e competizione. E invece il calcio ha incorporata la tendenza alle configurazioni lunghe, alle fratture nella coreografia del gioco, al demone dell’individualismo.
L’avvento generalizzato del gioco a zona ha avviato la capillare operazione di disciplinamento e rieducazione pol-pottiana, e il mutamento regolamentare che dal 1992 impedisce al portiere di raccogliere con le mani il retropassaggio volontario di piede ha sferrato un colpo mortale al ruolo che nel gioco esprime la diversità estrema.
Si affermano gli imperativi di serrare il più possibile gli spazi del gioco (rendendoli il più possibile a misura di schermo televisivo) e di conferire al gioco stesso una velocità isterica, generata dal permanere sempre più a lungo delle situazioni di palla in movimento. L’obiettivo è aumentare lo spettacolo, che va inteso come circostanza costruita per generare emozioni collettive e è una delle due merci prodotte dalla gare sportiva (l’altra è la prestazione).

Più highlights, più gol, più emozioni crasse al pari della risata da cinepanettone o del sussulto da “fìrm de paura!”. Tutto ciò è effetto di razionalizzazione, obbedisce a un principio disciplinare che in ultima analisi è disciplina dei corpi. Un’operazione di forte stampo biopolitico che per essere realizzata necessita però di un fattore fondamentale: l’allenatore.

Corpi obbedienti e sofferenti

Il ruolo dell’allenatore è cambiato molto più che quello del portiere. Da organizzatore e motivatore del comportamento collettivo egli si converte in figura ibrida, mix fra suprema autorità morale toccata da convinzione d’infallibilità e ingegnere di una megamacchina da smontare e rimontare a ripetizione. Perché in fondo la vera sfida è proprio quest’ultima: assemblare e riassemblare, dimostrare che tutti i calciatori sono fungibili e sostituibili, e che l’unico elemento davvero indispensabile è lui, Motore Primo.

Tocca all’allenatore disciplinare i corpi dei calciatori, renderli macchine versatili e ripetitive, ma soprattutto obbedienti. Pronti a eseguire cimenti che non capiscono né condividono, piegati al principio della pedissequa esecuzione, anche laddove questa corrisponda a comportamenti vissuti come innaturali.
Nel calcio altamente razionalizzato che esige il controllo biopolitico sui calciatori, gli allenatori non si rendono conto di essere i nuovi Mangiafuoco, né di trovarsi a loro volta soggetti a un controllo di ordine superiore.

Pensano di possedere il potere assoluto e invece sono la categoria maggiormente stressata dall’esigenza di alimentare un’industria in cui la merce-spettacolo è diventata nettamente più importante della merce-performance. Bisogna divertire, creare situazioni emotivamente potenti, infittire la lista degli highlights.

E quale mezzo migliore, per ottenere lo scopo, che solleticare l’ego degli allenatori? Consegnare loro le estreme leve del joystick mentale sui loro calciatori, farne pezzi di una giostra frenetica e ridicola. Non si uccidono così anche i cavalli?

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