Ha un’agenda di regie liriche prenotate dai teatri per anni. Ma sul cinema Damiano Michieletto ragiona al futuro. Ha macinato quello che chiama “l’esperimento televisivo” pucciniano del Gianni Schicchi (2021), e dopo questo Primavera non vede l’ora di girare un altro film, «ma più ruvido e imprevedibile».

Definiamo “più ruvido”. Cosa la invoglia, da spettatore?

Sono abbastanza onnivoro, da spettatore. Come i maiali (ride). Il mio eroe cinematografico è Charlie Chaplin, come regista, attore, scrittore e compositore. Uno che è riuscito a creare maschere come Charlot, pilastri della storia del cinema. Che ha lavorato nel muto e ha fatto Il Grande Dittatore con il nazismo ancora al potere: aveva già capito tutto ed è riuscito a fare le parodie di Mussolini e Hitler.

Ma il cinema mi piace tutto, di quello contemporaneo forse di più i film non canonici, quelli che chiamo “ruvidi”. Paul Thomas Anderson, Una battaglia dopo l’altra, tra i più recenti. E non ho un modello da seguire, come non l’ho avuto per Primavera.

Ho letto un romanzo e mi è venuta un’idea. Per il prossimo film spero di osare quello che qui non ho potuto osare, con un linguaggio più approfondito e una storia che abbia una sua piena autenticità. Ho già avuto proposte che ho rifiutato, perché non si fa un film tanto per fare un film.

Con Tiziano Scarpa, veneziano come lei, aveva già un rapporto di amicizia?

Ci conoscevamo già prima del film. L’ho chiamato e gliel’ho proposto. Prendendomi poi tutta la libertà necessaria, perché devi prendere quello che del romanzo ti serve, non prendere quello che non ti serve e aggiungere il necessario. Infatti è “liberamente tratto da”. Un libro ti dà l’idea di questi due personaggi che si incontrano. Dopodiché, abbiamo scritto un’altra storia.

Una curiosità: come ascolta la musica su cui lavora, Damiano Michieletto? Gli arriva prima alla pancia o all’orecchio?

Alla pancia, senz’altro. Per preparare questo film ho fatto una playlist di musiche di Vivaldi scelte solo e semplicemente perché mi piacevano, senza altri criteri. Solo dopo ho circoscritto rigorosamente la selezione. Il film è ambientato più o meno nel 1716, quattro o cinque anni prima della pubblicazione delle Quattro stagioni.

Non puoi usare musiche scritte vent’anni dopo, devono essere pertinenti a quel periodo perché il film risulti plausibile e rispetti la coerenza cronologica. Tra l’altro puoi scoprire che le sue musiche religiose sono anche le più moderne e più belle, meno spavalde, meno “vivaldiane” nel senso corrente, più toccanti. Ci tenevo a inserire quel tipo di suono nel film.

Tra gli aspetti che colpiscono in Primavera c’è l’assenza assoluta dell’elemento religioso, pur trattandosi di un’Opera Pia con una Priora e con insegnanti ecclesiastici.

Si chiamavano Opere Pie, ma erano istituzioni create non dal clero, dalla Repubblica di Venezia. Chi manda avanti l’Ospedale della Pietà è un Governatore, cioè una sorta di amministratore delegato, anche del tipo cinico e spietato. Deve far quadrare i conti, licenzia un maestro su due piedi e assume un altro musicista: è un businessman. La Priora, nonostante il nome, storicamente non era per forza una suora. C’è un grande libro che racconta la storia degli Orfanatrofi/Ospedali veneziani, e che ci siano letti da cima a fondo. La Priora poteva essere una suora, ma spesso era una istitutrice laica. E a volte, come nel nostro film, una ex orfana. Erano realtà molto “veneziane”, nel senso della storica concretezza locale.

Dovevano fare i conti con un problema sociale consistente, l’abbandono dei bambini. A Venezia, capitale della prostituzione, città cosmopolita, i neonati venivano abbandonati come i gattini. Il problema sociale la Repubblica lo affrontava con la cultura. Alle orfane non si facevano fare i merletti di Burano, gli si insegnava la musica. La regola era: le facciamo esibire e devono diventare le più brave del mondo, orchestre di professioniste che la gente paga per ascoltare. Con i proventi si finanziava l’assistenza: un business sensato.

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