Tutta la vita davanti non le era piaciuto, anche se co-firmava la sceneggiatura. Paolo Virzì aveva voluto come protagonista Isabella Ragonese, di un decennio almeno più giovane della Michela Murgia che aveva catturato la realtà tragicomica dei call center, lo sfruttamento e la grottesca liturgia motivazionale, nel suo Il mondo deve sapere. Quello del film – diceva Murgia – era un altro sguardo, più ingenuo e meno consapevole.

Diciassette anni dopo arriva in sala – il 9 ottobre con Vision Distribution, dopo un autorevole battesimo al TIFF di Toronto – un altro film, tratto dal suo ultimo e molto amato bestseller: Tre ciotole, di Isabel Coixet (da Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi, Mondadori 2023).

Ma col peso culturale e politico acquistato in questo intervallo di tempo da Murgia la sfida di questa coproduzione italo-iberica è molto più impegnativa. E ci manca il supporto della sua folgorante intelligenza per ragionare sulla coerenza tra le dodici storie a incastro del libro e la sintesi cinematografica in una sola storia di sopravvivenza emotiva, affidata a una supercoppia che mai finora aveva condiviso lo schermo: Alba Rohrwacher e Elio Germano.

È una materia intima e densa, quella trattata, che in superficie potrebbe avere a che fare con il life coaching (vedi i rituali) ma letterariamente è una superba campionatura di frammenti autobiografici elevati a esperienze universali.

La metafora dei “tre contenitori”, che dal cibo si estende a tutto ciò che scegliamo di riempire e di svuotare nelle nostre vite, vale per chiunque abbia sperimentato una crisi radicale e imprevista, il Crack-Up su cui rifletteva Francis Scott Fitzgerald (nella raccolta di saggi e lettere pubblicata postuma da Edmund Wilson) con esiti diametralmente opposti a quelli di Murgia.

Marta, la voce di Murgia

La Marta del film non è M.M. Non fa la scrittrice ma insegna ginnastica in un liceo, ha alle spalle sette anni di amore appagato con Antonio, chef di quartiere in ascesa, ha una sorella sbroccata ma tenera (Silvia D’Amico), percorre in bici le piste ciclabili intorno a Trastevere, tra un repertorio di graffiti che scopriamo con lei.

Ma la sceneggiatura a quattro mani della regista con Enrico Audenino dà a Marta la voce di Murgia, la sua inconfondibile prosa fuori campo, le coordinate del suo universo di riferimento, topografico, umano e immaginario.

C’è il Cambio, il locale trasteverino in cui Murgia amava scrivere e c’è il K-pop, che amava senza riserve. C’è soprattutto la capacità di reinventare la propria esistenza a partire da una perdita e da una condanna. L’appuntamento con la morte può diventare impulso di vita vera, di riscoperta, di uscita dai binari segnati.

Tra i grandi pregi di Tre ciotole c’è una Roma inedita e sghemba, fotografata (da Guido Michelotti) con virtuosismi arthouse in 4:3 (senza risparmio di Super 8 per i flashback). È più proiezione di stati d’animo che città reale. Ma contano anche i nessi con la filmografia di Coixet: il ristorante di Elio Germano si chiama “Senzafine” come la canzone-cult di Sarah Polley e Mark Ruffalo in La mia vita senza me, forse il titolo più celebrato della 65enne autrice spagnola. E conta la presenza a latere di Francesco Carril, collega insegnante di Marta già irresistibile protagonista di una serie speciale come Dieci Capodanni, di cui Domani ha parlato diffusamente.

Abbandonata da Antonio per un crescendo di incomprensioni, Marta-Rohrwacher reagisce alternando la rabbia – e velenose recensioni online del ristorante – ai primi sintomi di apparente anoressia. Finché la fame che manca, il vomito insistente, non trovano una diagnosi. È neoplasia al quarto stadio, in diastasi diffusa, inoperabile: «Non si tratta di sradicarla ma di conviverci». Non è un punto d’arrivo ma di partenza.

Chissà, forse per lasciarsi emozionare davvero dal film occorre dimenticare (o ignorare del tutto) la polifonia del libro. È come il concentrato di pomodoro in tubetto. Feuerbach è il filo rosso: «L’uomo è ciò che mangia». Che non va inteso, come spiega il collega Agostini (Carril) a Marta, come l’invito a «mangiare sano». Nel cibo mettiamo i nostri simboli più importanti. Marta parla tre lingue ma sta imparando il coreano, per simpatia. E la sua gastroenterologa (Sarita Choudhuri, che a casa sua è una star) cita (quasi) letteralmente dal libro: «C’è una sola creatura che non si ammala, l’ameba. Ma non sa neanche di esistere. E non potrà mai imparare il coreano».

L’idea è, e la domanda è rivolta allo spettatore: preferiresti non fare nessuna delle cose che fai a patto di non ammalarti mai? Rinunceresti a essere un organismo complesso soggetto a ingarbugliarsi?

Da lucciconi (musiche a parte)

Forse la simbologia è ipertrofica, per due ore di film. Ma non sapresti cosa tagliare. Non taglieresti Elio Germano che cerca di dimenticare l’ex – rimpianta praticamente da subito – aggirandosi per il Pigneto, che non è Trastevere ma un altro pianeta.

Non taglieresti il sapore di quel gelato che cola via come la vita, mentre Marta lo lecca riscoprendone il gusto. Non taglieresti la tenerezza possibile con il collega che l’ha sempre amata in silenzio né i troppi finali, che tracimano sui titoli di coda spiegandoti perché di qualcuno possono mancarti soprattutto le barzellette, e la gioia che ti trasmettono.

Sospetto che Michela Murgia non gradirebbe la smielatura di I Get Along with You Very Well, Except Sometimes di Hoagy Carmichael piazzata sul clan fraterno di Marta – vera famiglia elettiva, altro tema caro alla scrittrice – riunito a lutto. Ma è solo un sospetto. E se Ti ricorderai di Luigi Tenco – nella cover dei November Ultra e Nicolas Mantoux – è un coup de coeur, al tappeto sonoro firmato pleonasticamente da Alfonso De Villalonga preferiresti di gran lunga il silenzio. Inghippi pasticciati da coproduzioni, who knows?

Su Murgia non c’è da sviolinare. A lei non piacerebbe. Ma i lucciconi te li dà il film come te li danno i racconti del libro. Stando al National geographic le coreografie degli storni sono una strategia di difesa contro i predatori. «Cerchiamo sempre una ragione per ogni cosa. Ma la maggior parte delle cose della vita – compresa la vita – non hanno un perché».

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