- Per tradurre i diari della tradottissima scrittrice di gialli Patricia Highsmith ho dovuto rintracciare una voce diversa, in grado di mediare fra la persona, l’autrice e l’io narrante
- La lingua in grado di veicolare questa esplorazione, che era anche un’autopsia, doveva restituire perfettamente lo smottamento continuo tra analisi distaccata e sprofondamento inconscio
- I diari di Highsmith sono stati scritti in più lingue. Ma è nel suo inglese chirurgico e metafisico che ci dona i percorsi acuti e tortuosi della sua mente
Patricia Highsmith è tradottissima: la sua fama è stata declinata in tutte le lingue possibili. Eppure, quando mi è stato proposto di tradurla, sapevo che occorreva un’operazione nuova, poiché stavolta non si trattava di un romanzo o di una raccolta di racconti ma dei suoi (lunghissimi) diari, rinvenuti postumi dietro una pila di biancheria nel suo maniero svizzero, in cui ormai da un po’ di anni la vita raggiungeva Pat a malapena, sostituita dal tempo denso e autarchico della scrittura. Dove



