In un’intervista concessa alla giornalista Giulia Massari, Morante disse che lo spunto originale dell’Isola di Arturo era stato un aneddoto che le aveva raccontato un’amica, a proposito di un bambino di dieci anni geloso del fratellino. In un’altra conversazione con un giornalista dello stesso periodo, riportata sul settimanale “Il punto”, disse che inizialmente aveva pensato di intitolare il romanzo La grande gelosia. In un appunto conservato tra le sue carte invece compare l’alternativa La matrigna.

La vicenda di Arturo è quindi una storia di gelosia, una gelosia particolarmente frustrante perché legata a due amori impossibili, come ci dice anche un ulteriore titolo alternativo. Il primo amore impossibile è quello per il padre, poi viene quello per la matrigna: Wilhelm sembra incapace di ricambiare i sentimenti di Arturo per lui e disinteressato a coinvolgerlo nella propria vita; Nunziata invece prova evidentemente dei sentimenti per il ragazzo, ma è la moglie di suo padre e anche se non ha mai amato Wilhelm crede nella sacralità del matrimonio.

La sostanza del romanzo

La sostanza del romanzo però non è solo questa. Intorno alla prima fonte di ispirazione si condensò una nube romanzesca più sfaccettata, in cui un ruolo fondamentale è giocato da una fantasia di Morante, la fantasia di essere un ragazzo.

È una faccenda che ci porterà a considerare una delle questioni potenzialmente più difficili da maneggiare per le lettrici e i lettori contemporanei, ovvero le opinioni di Morante sui ruoli di genere, su ciò che distingue le donne dagli uomini e sull’identità femminile. Per varie ragioni la scrittrice è stata considerata ostile al femminismo, e in un certo senso forse lo era, ma vale la pena sviscerare la cosa, anche se ci metteremo un po’.

Cominciamo da una lettera del febbraio del 1957 che Morante scrisse al critico Giacomo Debenedetti, suo caro amico da almeno vent’anni prima, quando da condirettore della rivista “Meridiano di Roma” aveva apprezzato e pubblicato alcuni dei racconti che oggi leggiamo nello Scialle andaluso. Debenedetti aveva potuto leggere in anteprima L’isola di Arturo e Morante gli scrive: «La sola ragione che io ho avuto (di cui fossi consapevole) nel mettermi a raccontare la vita di Arturo, è stata (non rida) il mio antico e inguaribile desiderio di essere un ragazzo». Te lo avevo anticipato: Arturo è un alibi di Morante. Riprendendo la sua definizione, è cioè un’identità che le apparteneva, e in cui lei si impersonò nel romanzo.

Del desiderio di essere un ragazzo – che forse potremmo interpretare addirittura come un’ossessione, pensando ai ragazzi morantiani nati dopo Arturo e alle mescolanze di femminile e maschile delle poesie del Mondo salvato dai ragazzini – Morante doveva aver parlato anche con Umberto Saba, poeta che ammirava moltissimo e di cui usò un verso come prima epigrafe dell’Isola di Arturo, «Io, se in lui mi ricordo, ben mi pare...». Lo sappiamo perché in una lettera del 1953, in cui parlava del protagonista del racconto Lo scialle andaluso, Saba le scrisse: «Tu non ti sei identificata affatto (come credi) al fanciullo Andrea, ti sei identificata E PROFONDAMENTE alla madre siciliana. [...] La tua nostalgia di essere un ragazzo è – in realtà – la nostalgia di non aver messo al mondo un ragazzo: lo cerchi nell’arte perché non l’hai voluto nella sua fisicità». Le parole rivolte a Debenedetti quattro anni dopo mostrano che Morante non fu tanto convinta dalla lettura del poeta.

Non un uomo, ma un ragazzo

Lo si evince anche da un’altra intervista data a Massari, in cui la scrittrice disse: «Ho sempre desiderato di essere un ragazzo, e ancora adesso vorrei esserlo: non un uomo, ma un ragazzo. Da bambina, facevo i giochi dei ragazzi. Li preferivo perché i giochi delle bambine sono privi di fantasia; le bambine fanno le madri, le signore, le donne di casa, insomma quello che diventeranno un giorno, i ragazzi invece fanno il pellerossa o il cowboy, e poi diventano ingegnere, impiegato di banca. Le bambine, come le donne, sono pratiche; i ragazzi non lo sono, e anche gli uomini lo sono meno delle donne».

Queste dichiarazioni riflettono in parte alcune cose dette nel romanzo da Arturo, che prima di conoscere le donne (Nunziata di fatto è la prima che entra nella sua vita) è piuttosto misogino, probabilmente per l’influenza del padre. Coltiva un’immagine idealizzata e perfetta della madre che non ha mai conosciuto, ma delle donne di Procida pensa cose molto poco lusinghiere:

«Nulla, nell’oscuro popolo delle donne, mi pareva importante; e non m’interessava molto d’indagare i loro misteri. Tutte le grandi azioni che m’affascinavano sui libri erano compiute da uomini, mai da donne. L’avventura, la guerra e la gloria erano privilegi virili. Le donne, invece, erano l’amore; e nei libri si raccontava di persone femminili regali e stupende. Ma io sospettavo che simili donne, e anche quel meraviglioso sentimento dell’amore, fossero soltanto un’invenzione dei libri, non una realtà. [...] Secondo il mio giudizio, le donne reali non possedevano nessuno splendore e nessuna magnificenza. Erano degli esseri piccoli, non potevano mai crescere quanto un uomo, e passavano la vita rinchiuse dentro camere e stanzette: per questo erano così pallide. Tutte infagottate nei loro grembiuli, gonne e sottane, in cui dovevano tener sempre nascosto, per legge, il loro corpo misterioso, esse mi parevano figure goffe, quasi informi. Erano sempre affaccendate, sfuggenti, si vergognavano di se stesse, forse perché erano così brutte; e andavano come animali intristiti, diversi in tutto dall’uomo, senza eleganza né spavalderia».

La prima parte di questo racconto potrebbe benissimo descrivere il pensiero di una ragazzina che a scuola impara che la Storia, la cultura e la scienza sono state fatte soprattutto da uomini e arriva a pensare che il proprio genere non abbia combinato nulla di grande: lo so, ci sono passata.

La giovane Morante

Allo stesso modo le parole di Morante sui giochi amati dalle ragazzine potrebbero essere condivise dalle tante bambine annoiate dalle attività e dai giocattoli tradizionalmente proposti solo al loro genere, da tutti i “maschiacci” di ieri e di oggi che preferiscono biciclette, skateboard, palloni e macchinine alle bambole. La giovane Morante, che aveva due fratelli e nella prima infanzia non era andata a scuola, forse non ne aveva conosciute altre, oltre a sé.

Mi sono rivista in Arturo perché da ragazza ero piuttosto maschilista e provavo quel disprezzo per il mio stesso genere che per decenni le femministe hanno analizzato e incluso tra le tante conseguenze del crescere e vivere in una cultura (ancora, per quanto via via sempre meno) patriarcale.

E forse pure Elena Ferrante ha vissuto la stessa esperienza come lettrice di Morante. Rispondendo a una domanda di Goffredo Fofi sull’influenza di Morante sul romanzo L’amore molesto, l’autrice dell’Amica geniale scrisse la frase che ho messo all’inizio del capitolo: «Arturo era una ragazzina, non poteva essere che così».

Prova a pensarci un momento: A., adolescente, ama profondamente il padre e soffre all’idea che non potrà mai essere come lui. Imitandolo, disprezza le donne. Rifugge la compagnia dei ragazzi dell’isola. Cerca di temprare il proprio corpo con esercizi, nuotate e avventure per poter essere all’altezza del padre.

Non potrebbe essere l’inizio di un romanzo alternativo, alla Lady Oscar? Anche la pietà nei confronti delle bambine che Arturo prova può essere un’indicazione in questa direzione:

«Quando nasceva una femmina, a Procida, la famiglia era scontenta. E io pensavo alla sorte delle femmine. Da bambine, esse ancora non apparivano più brutte dei maschi, né molto diverse; ma per loro non c’era la speranza di poter diventare, crescendo, un bello e grande eroe».

Ripensiamo ad Arturo

Ora freniamo l’immaginazione e ripensiamo ad Arturo come a un ragazzo letterale, inventato da una scrittrice. Per Ferrante il personaggio e la sua adolescenza maschile sono un travestimento liberatorio per «raccontare quello che altrimenti, nell’esperienza femminile, non ha forma». Anche l’epigrafe di Saba lo suggerirebbe: nel verso «Io, se in lui mi ricordo, ben mi pare...», Ferrante nota soprattutto la maschilità del «lui». E poi si augura che arriverà un futuro in cui le scrittrici riusciranno «a scrivere davvero fuori di lui, non per pretesa ideologica ma perché davvero, come le anime platoniche, ci ricorderemo di noi senza doverci, per comodità, per consuetudine, per prendere le distanze da noi stesse, rappresentare in lui». Un futuro in cui tutte le donne impareranno «a non infagottarsi» come le donne di Procida.

Non è semplice svoltolare questi fagotti e vedere cosa c’è sotto, per provare a capire cosa fosse l’identità femminile per Morante, un tema su cui apparentemente fu contraddittoria. Nell’Isola di Arturo e nella Storia, oltre che in varie interviste, sembra dividere uomini e donne usando categorie binarie molto rigide, attribuendo al maschile e al femminile caratteristiche ben precise, la riflessività e l’azione da un lato, l’istinto e la cura dall’altro. Sempre a Massari per esempio disse che Nunziata rappresentava il suo ideale femminile: «Io penso che una donna tanto più è bella quanto più è materna. Una donna non materna mi sembra una donna non riuscita». La stessa Ida, con tutte le sue debolezze, è un personaggio molto forte quando è guidata dall’amore per i figli e dal suo «senso del sacro».

Eppure con la sua esperienza personale, di donna intellettuale, lavoratrice, senza figli e indipendente dal marito, e con il suo desiderio di essere un ragazzo, Morante si distanziava da questo ideale. È come se per lei fosse esistita una terza categoria di persone. Non lo disse mai esplicitamente, ma mi è sembrato di intravedere queste donne in un altro breve passaggio dell’Isola di Arturo, che segue la descrizione dei “fagotti”, quando Arturo menziona le «forestiere» che ogni tanto visitano Procida e fanno un bagno in mare: «Per i Procidani, e anche per me, esse non erano donne, ma quasi degli animali pazzi, discesi dalla luna».

da Le chiavi magiche. Indagine di una lettrice su Elsa Morante e i suoi romanzi, Utet, 2025, in libreria dall’11 novembre

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Ludovica Lugli è nata a Modena nel 1991. È una giornalista del Post, dove lavora dal 2016, e per cui ha curato due numeri della rivista-libro «Cose spiegate bene». Dal 2023, insieme a Giulia Pilotti, conduce Comodino, un podcast mensile di chiacchiere su libri, editoria e lettura. Le chiavi magiche, pubblicato da Utet, è il suo primo libro.


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