Eurovision 2026, il boicottaggio ora è possibile. La faglia si è aperta e corre lungo l’Europa musicale. A Vienna, dove il contest è previsto dal 12 al 16 maggio 2026, la domanda non è più chi canterà, ma chi ci sarà. Spagna, Islanda, Irlanda, Paesi Bassi e Slovenia hanno messo sul tavolo il ritiro se Israele sarà ammesso: una frattura che riguarda finanze, audience e credibilità del marchio Eurovision. Nel 2025 il contest ha raggiunto, secondo i dati ufficiali, 166 milioni di spettatori: l’assenza di un Big five ridisegna voti, share e finanziamento.

L’Eurovision song contest, nato nel 1956 per iniziativa dell’Unione europea di radiodiffusione (Uer/Ebu), è oggi la più grande competizione musicale televisiva d’Europa. Vi partecipano oltre quaranta paesi, compresi extraeuropei come Israele e Australia. I cinque maggiori contributori – Italia, Francia, Germania, Spagna e Regno Unito – sono i Big five: entrano di diritto in finale e sostengono gran parte del budget. Per questo un loro ritiro avrebbe conseguenze politiche ed economiche senza precedenti.

Il gruppo pronto a lasciare

Il 16 settembre il consiglio di amministrazione di Rtve, la radiotelevisione pubblica spagnola, ha votato 10-4 (un astenuto) per il ritiro in caso di presenza israeliana, chiedendo alla Uer un «dibattito serio e profondo» sull’impatto politico della partecipazione di Tel Aviv. È la prima volta che un Big five lega la propria presenza a una condizione politica.

A stretto giro Avrotos, l’emittente olandese, ha dichiarato di «non poter più giustificare» Israele alla luce delle «gravi sofferenze a Gaza», della compressione della libertà di stampa e delle «interferenze politiche» denunciate nell’ultima edizione. Rté, la tv irlandese, ha definito «inconcepibile» la partecipazione con Israele in gara; Rúv, l’emittente islandese, ha chiarito che il ritiro «è possibile» se l’Uer confermerà Tel Aviv; Rtv Slovenia ha annunciato di valutare il ritiro in mancanza di trasparenza.

La palla ora è all’Unione di radiodiffusione, che deciderà nell’assemblea generale del 4 e 5 dicembre a Ginevra. Nell’attesa ha prorogato le scadenze per candidature e ritiri senza penali, segno che la controversia condiziona le scelte. Dal lato israeliano, la tv pubblica Kan conferma la presenza e rivendica il carattere «culturale» dell’evento. Ma il precedente della Russia nel 2022, esclusa dopo l’invasione dell’Ucraina, incombe: molti broadcaster chiedono criteri generali, non decisioni ad hoc.

Il rischio è materiale e d’immagine. Un’uscita della Spagna scompaginerebbe il gioco dei voti, incrinerebbe la promessa di neutralità e aprirebbe una frattura nei finanziamenti.

E l’Italia che fa?

Anche nel nostro paese il clima è mutato. Da Sanremo 2024, con il «Stop the genocide» di Ghali e le polemiche sulla gestione della serata, si è aperta una stagione di prese di posizione che fino a poco fa erano considerate sconvenienti. Musicisti mainstream e indipendenti hanno firmato appelli, organizzato concerti, scelto parole nette. Il 18 settembre a Firenze un cartellone di artisti ha riempito un evento “Sos Palestina”, segnale di una mobilitazione non episodica.

Accanto a queste scelte si sono visti ripensamenti e riposizionamenti individuali, prova che la linea di galleggiamento tra intrattenimento e responsabilità pubblica non è più stabile. La Rai, che seleziona l’artista per Eurovision attraverso Sanremo, non ha ancora espresso una posizione sulla controversia, limitandosi alla cronaca delle decisioni Uer. È un equilibrio complicato: se Israele resterà e il fronte dei boicottaggi crescerà, anche viale Mazzini dovrà chiarire se la partecipazione sia solo televisione o una scelta che parla al Paese.

Per gli artisti l’orizzonte non è più neutro: aderire o no a eventuali iniziative di pressione diventa parte del profilo pubblico, come già accade altrove in Europa.

Israele paria culturale

Per Israele, Eurovision rischia di trasformarsi da vetrina a cartina di tornasole dell’isolamento. Se l’Uer confermerà la partecipazione, i ritiri costruiranno una narrazione di paria culturale, amplificata dalle prese di posizione nel mondo dello spettacolo. Se, al contrario, l’organizzazione introdurrà condizioni o sospensioni, il caso rimbalzerà nella politica israeliana e dentro l’Uer, tra accuse di doppi pesi e la necessità di procedure generali sui conflitti.

In entrambi gli scenari, Eurovision smette di essere solo canzonette: la politica entra in scaletta, pesa sulle giurie, cambia il pubblico.

Il marchio culturale che non unisce più

Vienna intanto prepara la macchina con più incognite del previsto. L’eventuale ritiro di un Big five come la Spagna peserebbe su budget, vendite e sponsor. La geografia dei televoti cambierebbe e la finale perderebbe uno dei mercati più popolosi. È questo, più del gesto simbolico, a preoccupare i manager: la sostenibilità dell’evento e la tenuta di un marchio costruito sulla promessa di unire dove la politica divide.
Il braccio di ferro tra musica e politica è arrivato al punto di rottura.

Le scadenze Uer rinviate a dicembre tengono il sipario alzato ancora per qualche settimana, ma la trama è ormai chiara: o Eurovision esplicita criteri e responsabilità, oppure continuerà a cantare sopra il rumore della storia. E quel rumore, oggi, arriva forte anche dalle nostre cuffie.

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