Non abbiamo smesso di cercare nella letteratura le parole giuste per dire i nostri mondi infestati, per evocare i nostri demoni, per schiarire il nero che ci si può addensare dentro: lo dimostra il successo di uno scrittore come Daniele Mencarelli, che con la sua trilogia di romanzi autobiografici (La casa degli sguardi, Tutto chiede salvezza e Sempre tornare, tutti editi da Mondadori tra il 2018 e il 2021) ha coinvolto e sconvolto migliaia e migliaia di persone, dissetate alla fonte delle sue parole e delle sue storie crude e poetiche – e, per questo, rappresentative di un atto di sublimazione collettivo non molto diffuso nel panorama letterario attuale.

Ecco dunque che in questi anni si è profilato uno scrittore con un solido fandom che resta in trepidante attesa di una nuova pubblicazione. Un autore che non è necessario definire di culto (probabilmente Mencarelli rifiuterebbe una definizione tanto ampollosa), ma senza dubbio profondamente amato da un pubblico davvero trasversale, complice anche una serie Netflix tratta da Tutto chiede salvezza. Il romanzo Fame d’aria (Mondadori, 2023) era infatti tra i più attesi di questo inizio d’anno: e le aspettative non sono state deluse.

Romanzo puro

La quarta storia di Mencarelli fuoriesce dal pattern dell’autofiction, offrendo una storia di finzione, ma capace di essere viva come le precedenti. È scontato, per chi abita la letteratura, incontrare nei romanzi qualcosa di più vero del vero: ma non sempre accade con la grazia e la virulenza messe in mostra in Fame d’aria. Una vicenda in cui un padre e un figlio diciottenne si trovano sperduti nel Molise più remoto, con l’auto rotta, in una manciata di ore che diventano una transizione tra la loro vita di prima e quella di dopo.

Una narrazione capace di essere esterna (nella terza persona) ma profondamente interna nello scandagliare ogni anfratto emotivo di ciò che Pietro Borzacchi, il protagonista-padre, vive, accumula, patisce. La costruzione del personaggio di Pietro è coinvolgente e piena, proprio come era successo per i vari Daniele dei romanzi precedenti, ma in questo caso si tratta di una figura plurale: la vita di Pietro si somma alla perenne presenza adiacente e simbiotica del figlio adolescente Jacopo, il quale, con il suo «autismo a bassissima funzionalità», determina la presenza nel mondo del padre, dettandone i tempi, i doveri, in un’assistenza perpetua (dal cambio dei pannoloni al doverlo «attivare» per farlo mangiare).

Jacopo è, naturalmente, puro, dolce, innocente come poche altre creature, ma con il suo essere (solo all’apparenza) inerme e vuoto, è anche un gocciolare nero nel cuore del padre Pietro, creando una chiazza oscura che scava a fondo nel petto dell’uomo. La dedizione verso le necessità totalizzanti del figlio diventa un nodo scorsoio che sembra poter impedire ogni ipotesi di felicità: e infatti la presenza del padre e del figlio nel paesello molisano è una casualità avvenuta durante un tentativo di fuga verso un luogo ulteriore, verso un posto simbolico della Puglia dove Pietro sostiene di voler celebrare l’anniversario dell’innamoramento con sua moglie. Ma questo è un romanzo, un romanzo puro, e dunque le cose possono non essere quello che sembrano.  

Il demone

La minuscola comunità molisana di Sant'Anna del Sannio accoglie, a suo modo, Pietro e Jacopo: tra la riparazione dell’auto, la trattoria che funge anche da pensione, e le varie «facce da paese» che nei pochi ma densi giorni di permanenza diventano un arcipelago umano che costringe Pietro a guardarsi negli occhi, a razionalizzare il demone che lo sta divorando. Ma da quando, questo demone, esiste? Con sua moglie è sempre stato amore; con Jacopo anche è sempre stato amore, un amore che miscela accudimento e sacrificio.

E questi amori ci sono ancora, palpitano, ancora e ancora, anche se feriti dalle vicende e dallo scorrimento di un vivere diverso da quello di tutti quelli che non hanno «un figlio così». Da quando, questo demone, ha cominciato a smontare le fila di questo recinto d’amore nel quale Pietro si è rifugiato per così tanti anni? Ecco, è qui che scatta la peculiarità della letteratura di Mencarelli, dove la scrittura è un “abrakadabra”, un “creo quello che dico”.

Sofferenza nuova

In Fame d’aria potremmo pensare di aver compreso cos’è che rode l’esistenza di Pietro, ma invece no, questo romanzo determina un percorso che esplode forse in una scena in particolare: Pietro davanti a un bancomat, l’angoscia di una carta bloccata, il terrore dell’impossibilità di un prelievo, il cervello che ripercorre per l’ennesima volta i calcoli che – centesimo per centesimo, ogni singolo giorno di ogni singolo mese di ogni singolo anno – è costretto a fare per procedere nella vita.

Pietro è un grafico impiegato in un’azienda, ma i soldi non bastano, non bastano mai. E questi soldi che non bastano è come se fossero la metonimia di sé stesso, come se fosse lui, come umano, a non bastare mai, a essere un uomo insufficiente, incapace di stare nel mondo. I soldi, il bancomat, il fido bancario, il conto corrente perennemente ripercorso in ogni transazione... Pietro, in questi anni, è diventato tutto questo, ed è in questo magma che il demone ha assunto forma.

Mencarelli ci mette davanti a questo soffrire che è forse nuovo, del tutto antitetico alla letteratura borghese (quella spesso romano-centrica o milanese-centrica, dove i protagonisti possono vivere in un contesto nel quale il denaro ha funzioni molto diverse rispetto alla vita vera; non è quindi un caso se Fame d’aria è ambientato in un luogo remoto, tra personaggi concretissimi finalmente liberi da discorsi finto-riflessivi e senza una pseudo-epica alle spalle).

Il Pietro di Mencarelli è un uomo-manifesto che dichiara la verità delle nuove esistenze, quelle in cui non si è mai davvero poveri ma si è sempre nella disperazione di poterlo diventare. Pietro rappresenta i “working poors”, le persone che lavorano in modo estenuante ma rimangono poveri, quello che fanno non basta mai a rispondere alle istanze di questo meccanismo sociale, e ci si consustanzia in questo status, si diventa in tutto e per tutto questa orrenda precarietà, questa disperante quotidianità fatta di calcoli e tentativi, rendendoci dei Sisifo che non potranno mai avere pace nella scalata verso le vette sempre più alte imposte da un capitalismo (se ha ancora senso chiamarlo così) più forte che mai: un capitalismo che porta Pietro a odiare sé stesso così tanto da guardare con occhi pieni di rabbia anche la purezza di quel Jacopo che avrebbe voluto sempre amare. E il demone che continua a sussurrare che lui, Pietro, non basta, non basta mai.

Terapia

In tutto ciò il romanzo riesce, quasi miracolosamente, a non scivolare mai nell’eccessivamente torbido o nel morboso, e questo avviene grazie alla scrittura di Mencarelli, che in Fame d’aria probabilmente tocca un equilibrio definitivo. Il ritmo cinematografico (complice anche un finale inaspettato e al cardiopalma) si intreccia con uno sguardo sensibilissimo, a volte delicato, a volte ruvido, ma perennemente poetico.

Ecco, l’abrakadabra di cui sopra: Mencarelli crea ciò che dice, e così Pietro e Jacopo diventano non più personaggi, ma persone che abbiamo avuto accanto, che abbiamo conosciuto, e che porteremo dentro a lungo. Perché Fame d’aria conferma un assioma che, da quando esiste la letteratura, non è mai stato facile da dimostrare: una storia non-vera può essere molto più viva e potente della realtà. E sconvolgerci e redimerci, e aiutarci a capire il nostro tempo e il nostro vivere, come una terapia. Come una poesia.


Fame d’aria (Mondadori 2023, pp. 180, euro 19) è l’ultimo romanzo di Daniele Mencarelli

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