Da che ho una figlia, passo gran parte del mio tempo a parlare di cose che non mi interessano, come i Miei Mini Pony, la pasta, o la morte.

«Mamma, quando muoio, voglio morire in Egitto».

Sono circa le 5.45 di mattina, a parlare è mia figlia di quattro anni.

«Voglio morire in Egitto così posso diventare una mummia» precisa.

Una specie di pilota automatico genitoriale si occupa della faccenda al posto mio. «Le mummie sono bellissime» dico. «Adoro le mummie.»

«Le mummie fanno altre mummie. Con la carta igienica.»

«Sì» dice il pilota automatico. Ma sto cominciando a svegliarmi, e la mamma puntigliosa che è in me prende il sopravvento. «Cioè, le mummie sono persone morte. Sono le persone vive che le fasciano, non le altre mummie, e non con la carta…»

«Le mummie non sono morte».

«Non sono vive…»

«Non è vero!» dice lei, con grande trasporto. Segue una pausa, poi scoppia a piangere. «Se devo morire, allora non voglio proprio esistere».

Da che ho una figlia, mi accorgo che passo gran parte del mio tempo a parlare di cose che non mi interessano, come i Miei Mini Pony, o quando mangeremo di nuovo la pasta, o la morte. A tre anni, mia figlia ha subodorato che a quattro le sarebbe toccato un altro ciclo di vaccinazioni. «Dopo il tre viene il cinque» ha iniziato a dire. Ci sono state anche molte, molte lacrime, in previsione di un simile orrore. «Anche a dieci anni si fanno le punture? Pure io avrò dieci anni.» Alla fine, ha semplicemente preso a dichiarare, a chiunque non glielo chiedesse: «Ho cinque anni.»

Ricordo che da bambina la morte non mi interessava. Ricordo che mi interessava Tre cuori in affitto. A tutta la mia famiglia interessava Tre cuori in affitto. L’unica eccezione, probabilmente, era mio padre: a lui piaceva visitare il cimitero nel nostro quartiere, e una volta è andato a una proiezione di Shoah.

Ma anche quando mio padre è morto, il resto della famiglia ha continuato a rispettare la regola che della morte non si parla: non troverete mai una foto di mio padre appesa a casa di mio fratello o di mia madre. Siamo abilissimi a ignorare i fantasmi, ci siamo allenati a lungo. Il mio nonno materno è morto prima che mia madre nascesse. Non ho mai fatto domande su di lui; nessuno me ne ha mai parlato.

Quando avevo più o meno trent’anni, un cugino mi ha rivelato che si chiamava Oren: lo stesso nome di mio fratello. Un’informazione che ho dimenticato, per ricordarmene più avanti. Quando mia figlia aveva due anni, mi è capitato di sentire un’amica – una mia amica! – raccontarle che le foglie in autunno muoiono. «Che incoscienza» ho pensato, anche se poco tempo prima avevo portato mia figlia a una proiezione di The Wolf of Wall Street senza farmi troppi problemi.

«Conosci qualcuno che è morto? Quante persone sono morte? Tu morirai?» Ero stata costretta a confessarle che suo nonno era morto, e anche che aveva un nome. Non era stato affatto divertente.

Ma che dire di lei? Davvero affronta la vita come se fosse un obitorio? Comincia a elencare tutti quelli che conosciamo e amiamo, come un pubblico ministero, e mi interroga: «Questo morirà? Quest’altro morirà?» Io le confesso la verità, una persona alla volta, e mi sento una specie di boia.

«Mamma, devo dirti una cosa».

Inizio a preoccuparmi. Di che si tratta?

«Laetizia dice che ormai sa tagliarsi le unghie da sola».

Qualche settimana più tardi ceniamo a casa di un’amica il cui fratello è morto da poco. Non credo che mia figlia lo sappia. C’è un cane gigantesco col muso da boxer sotto al tavolo, che sta sgranocchiando un osso di pelle secca. «Hai mai dato un osso a un cane, mamma?»

Le dico che da piccola avevo un cane che andava matto per gli ossi. Quando studiavo al college avevo un altro cane che…

«E ora sono morti, questi cani?»

E sia. Ho un vivido ricordo di quand’ero piccola, di mia madre che sfila il cassetto pieno di cianfrusaglie sotto al telefono di Kermit la Rana. Sfilò il cassetto e riversò tutto il suo contenuto in un sacchetto dell’immondizia. Che cosa tremenda! Mi piaceva tantissimo aprire quel cassetto, sapendo che avrei potuto trovarci di tutto: un portachiavi rosa della compagnia di assicurazioni, un orologio di plastica (fermo), un pezzetto di carta con su scritto «orsetti–robinhood». Terrò sempre in vita questo cumulo di cianfrusaglie, mi dicevo. Sarò sempre aperta a queste sorprese.

Oggi come oggi adoro i cassetti vuoti.

Il giorno dopo la cena dei cani morti, mentre torniamo a casa in metro, annuncio a mia figlia che faremo un salto in una caffetteria per salutare papà. Papà è lì con un’amica che non vede da tanto tempo, quindi sarà carino…

«È proprio fortunata a essere ancora viva, vero?»

È una splendida giornata. L’amica è arrivata – come mi era stato anticipato – insieme al suo nuovo fidanzato. La coppia irradia quel genere di felicità che rende chiunque incontestabilmente bello. Compro a mia figlia un enorme biscotto con le gocce di cioccolato. Quando ne spezzo un angolino per me, lei mi ringhia contro. Nel frattempo, capto frammenti di una storia: una delle cose che hanno unito queste due persone è che entrambe hanno perso il coniuge. È qualcosa che li ha legati profondamente.

Un altro loro amico, cui pure era morta la moglie, ha invece sposato una donna cui non era morto nessun marito. Mia figlia si è spalmata il cioccolato su tutta la faccia, come un cucciolo di leone alle prese con una carcassa. I figli di quest’uomo con la moglie morta, che ha sposato una donna senza un marito morto, non sanno nulla della defunta compagna del padre… anche se sono adolescenti. Tutti concordiamo che non va affatto bene. Il nuovo fidanzato dell’amica dice: «È importante trovare qualcuno che non ignori il fantasma nella stanza».

Ed ecco che, all’improvviso, rivedo mio padre: sta guardando Agenzia Rockford e poi Kojak mentre io crollo dal sonno sul divano del soggiorno, pur di stare nella stessa stanza con lui. Ed eccolo di nuovo mentre mi dice che per prima cosa devo orientare la mappa, e io mi oppongo, con veemenza: «No, non bisogna orientare la mappa…»

Eh già, tutti impariamo dai nostri figli, ma cos’è che impariamo? Come mai spesso si tratta di cose di cui persino loro non sanno nulla? Quando infine mia figlia ha compiuto quattro anni, quando la visita medica per la vaccinazione – che aveva provato a evitare con ogni scusa per quelli che mi erano sembrati anni – è diventata realtà, lei mi ha stupita.

Ha osservato senza batter ciglio il suo braccio destro mentre le facevano due iniezioni, poi, sempre senza batter ciglio, ha osservato il braccio sinistro mentre gliene facevano altre due. Non ha pianto. Non si è tirata indietro. Era semplicemente interessata. Oltre a questo, i cioccolatini Hershey’s Kisses lei li chiama Hershey’s Curses; da «baci» a «maledizioni»: interpretatelo come vi pare. E pure la sua strategia per risolvere i conflitti è niente male: «Mamma, non parliamone più.»

traduzione di Andrea Berardini

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