La moda è ossessionata da questa parola perché sente di doversi prendere in carico di prevedere quello che succederà nel mondo. Non è ovviamente così e quelle che sembrano dinamiche da cartomante hanno in realtà profonde radici nell’osservazione della realtà. Ma esiste veramente un modo per prevedere quello che la gente vorrà comprare o la macchina del marketing è così potente da condizionare le nostre scelte? Sicuramente esistono due esempi eccellenti da cui partire.

Una delle domande ricorrenti che le persone mi fanno quando vengono a sapere che lavoro nella moda è come fanno gli stilisti a prevedere il futuro, sapendo sempre in che modo cambieranno i gusti delle persone e costruendo collezioni che vanno nella giusta direzione molto tempo prima che chiunque altro se ne renda conto.

La risposta è che non lo sanno. Nessuno può prevedere il futuro, tantomeno gli stilisti. Il futuro però è qualcosa che da una parte si può direzionare, se non costruire, e dall’altra si può svelare. Sono due processi radicalmente diversi applicati in realtà a moltissimi altri campi oltre alla moda ma che in essa trovano un medium di espressione privilegiato perché la moda, da sempre, ha la caratteristica formale di prevedere il futuro.

Guida e rivelazione

Poiché affrontare i due modelli solo a livello teorico mi pare una via poco percorribile, comincerei con due esempi. Quando nel 1968 esce 2001: Odissea nello spazio, film scritto e diretto da Stanley Kubrick, André Courrèges ha già un atelier da cinque anni, attraverso il quale racconta al mondo una nuova space age fatta di vestiti bianchi dalle linee essenziali, mentre Paco Rabanne da un paio d’anni costruisce un’idea di futuro fatta di vestiti di metallo e plastica.

Kubrick, che conosce benissimo la moda del tempo, raccoglie quel linguaggio e lo istituzionalizza creando uno dei film più importanti e iconici della storia del cinema e di fatto scolpisce per sempre l’immagine che ancora oggi molti di noi hanno del futuro: limpido, minimalista, freddo, tecnologico, non umano.

Le tute e le navicelle spaziali della Nasa, a partire dalla metà degli anni Sessanta, vengono disegnate pensando a quei riferimenti e non, come si tende a credere, il contrario.

Per la cronaca, l’idea di futuro cambierà solo con Blade Runner, film di Ridley Scott del 1982, diventando distopica e pessimista e portandosi con sé piogge acide e vestiti anni Quaranta che daranno vita a una serie infinita di copie, tra cui quelle meravigliose di Miuccia Prada.

Ma il futuro si può anche svelare, intercettando cambiamenti di sensibilità che esistono sottotraccia e che non sono ancora visibili chiaramente dalla massa indistinta dei consumatori o che sono difficilmente rappresentabili.

Un esempio, per usare sempre riferimenti cinematografici, è il cinema italiano degli anni Settanta, quello che fino a poco tempo fa veniva chiamato “di serie B”, e in particolare il filone horror che dietro fiumi di sangue, nudi femminili e scene di sesso superflue descrive la condizione della donna in una maniera cruda, netta e sincera, esercitando una funzione di critica sociale che sarebbe stata inaccettabile altrimenti.

È solo nel 1975 infatti che viene cancellato l’articolo 144 del codice civile, il quale dice che «il marito è il capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza», mentre fino al 1968 l’articolo 559 del codice penale dichiara che «la moglie adultera è punita con la reclusione fino a un anno. Con la stessa pena è punito il correo dell’adultera. La pena è della reclusione fino a due anni nel caso di relazione adulterina. Il delitto è punibile a querela del marito».

Per veder sparire il delitto d’onore bisognerà aspettare il 1981. Piccoli capolavori come Non si sevizia un paperino del 1972 o Sette note in nero del 1977, entrambi diretti da Lucio Fulci, sono una denuncia esplosiva della condizione femminile del tempo e un tentativo di spostare il racconto delle donne dal ruolo di vittime al ruolo di protagoniste essenziali della narrazione.

Due esempi

Esattamente nello stesso modo funzionano i meccanismi apparentemente previsionali della moda. Per raccontarli ci occuperemo di due delle personalità più stellari e brillanti del panorama contemporaneo del lusso: Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, che il futuro lo ha svelato e Nicolas Ghesquière, direttore creativo di Louis Vuitton donna, che il futuro lo ha creato.

Giusto per dare un po’ di numeri, Gucci all’apice della sua fortuna, nel 2019, ha fatturato 9,6 miliardi di euro mentre Bottega Veneta – che fa sempre parte del gruppo Kering – ne ha fatturati 1,1 e Saint Laurent 2.

Il gruppo  Kering in quell’anno ha fatturato in totale 15,8 miliardi di euro. Invece, del totale di 21 miliardi di fatturato della parte moda del gruppo Lvmh, ben 14 se li porta a casa Louis Vuitton.

Anche se non è semplicissimo arrivare a cifre esatte (perché i dati non vengono resi noti ufficialmente) risulta abbastanza chiaro come i due marchi siano gli ammiragli dei due più grossi gruppi del lusso e che per questo sia interessante analizzarne le dinamiche.

Alessandro Michele, romano, classe 1972, è alla direzione creativa di Gucci dal 2015. Nicolas Ghesquière, di Loudon, in Francia, classe 1971, è stato direttore creativo di Balenciaga dal 1997 al 2012 ed è direttore creativo di Louis Vuitton dal 2013.

I due, a parte essere a capo dei due marchi più importanti dell’universo, non hanno veramente niente in comune. La differenza tra i due mega gruppi globali, i due brand e i due direttori creativi è abissale e delinea due concezioni del futuro diametralmente opposte.

Il mondo di Gucci

18/02/2017 Milano, settimana della moda, sfilata di Gucci

Gucci è un progetto di hackeraggio del passato, nello specifico di un periodo che va dagli anni Sessanta agli anni Settanta e ancora più nello specifico della parte divertente, leggera, colorata e ottimista di quel momento storico.

Dentro l’immaginario di Alessandro Michele le rivolte studentesche del 1968 sono un ribollire di gioiosa espressione creativa e non i prodromi del terrorismo armato, i riferimenti alle crisi sociali sono lievi ed estetizzanti, gli scenari mondiali sono raccontati con un punto di vista beffardo, eccentrico, mai vittimistico, mai colpevolista e soprattutto mai pessimista.

A partire dalla storia di quel periodo, lo stesso che ha nutrito Martin Margiela con risultati del tutto diversi, Alessandro Michele dipinge un mondo, quello di oggi, rassicurante, inclusivo, senza pericoli, senza conflitti, senza dolore e lo usa per attrarre masse di giovani e meno giovani che entrano in una specie di paradiso terrestre incontaminato in cui tutto è estetica, in cui i messaggi sono semplici e in cui in generale la complessità non sembra esistere.

Quello che rende interessante il suo operato e il modo in cui costruisce la sua visione di futuro è sicuramente il lavoro sulla cancellazione del binarismo di genere, cioè della distinzione ottocentesca tra maschile e femminile (che nella sfilate non esiste più ma nei negozi sì), dell’idea di famiglia nucleare e di rigidità etnica.

Il mondo di Alessandro Michele è aperto e ha il successo che ha perché descrive un futuro che è quello che Michele vorrebbe che fosse davvero il futuro e per le spinte al cambiamento della comunità Lgbtqia+, ma anche di larghi strati della popolazione mondiale che non ne fanno parte (se vuoi approfondire puoi saltare al capitolo Z. Generazione Z).

Da un punto di vista sociale e politico, negare la dualità dei generi equivale a prendere a martellate ogni forma di costrizione e di controllo, significa spostare la discussione verso temi che interessano molto da vicino sia Millennial che Gen Z, portando in sostanza Gucci a diventare il brand di riferimento per queste tematiche così centrali.

Alessandro Michele è l’unico stilista vivente che non ha paura della riproduzione del vecchio, del già visto, che non ha l’ansia del nuovo perché è riuscito a costruire un mondo con regole proprie, dove le leggi dell’uomo non funzionano più. Questo si chiama catturare un’idea di futuro possibile e usarla per costruire valore.

L’approccio Ghesquière

08/10/2015 Parigi, settimana della moda primavera estate, sfilata di Louis Vuitton

D’altra parte Nicolas Ghesquière, che ha quasi la stessa età di Michele, lavora in una maniera molto più tradizionale, come del resto è più tradizionale l’approccio del gruppo a cui appartiene.

Se la moda contemporanea si è a un certo punto sganciata da un modo di costruire prodotti e collezioni vecchio di centinaia di anni è anche grazie a Ghesquière (oltre che alla sua sorella di moda Phoebe Philo). Durante gli anni in Balenciaga, Nicolas ha deciso di ricostruire il guardaroba femminile non con un’unica grande narrazione, come quella di Michele, ma con decine di singole collezioni, ognuna delle quali ha raccontato qualcosa di nuovo rispetto all’articolazione di un singolo capo.

Si tratta di un lavoro chirurgico che inventa il futuro basandosi su un sano impianto borghese, prendendo ogni volta qualcosa di sbagliato e rendendolo accettabile: plastiche luminescenti, in finta pelle e neoprene, asimmetrie disarmoniche, costruzioni esasperate, classici sconvolti. Ghesquière è, come Kubrick, un artigiano che arriva alla visione finale dopo essersi soffermato ore o giorni sul particolare riuscendo in questo modo a convincere il pubblico che quello che sta facendo è reale, anzi sarà reale.

Ma dietro la sartorialità fantascientifica non è possibile trovare una vera ragione. Mentre Alessandro Michele traduce stimoli sociali, Nicolas Ghesquière inventa provocazioni che vengono poi accolte, come le tute della Nasa, e arrivano alla strada.

Se le giacche con le spallone anni Ottanta sono tornate sulla scena della moda è anche grazie a Nicolas, ma non è sicuro che questo richiamo a un decennio dorato abbia un senso per i giovani di oggi.

Questi sono due modi di costruire il futuro che usano i due classici metodi opposti: dall’universale al particolare e dal particolare all’universale. Il fatto che in questo momento storico il primo sia più comprensibile, per non dire commestibile, dimostra che il disinteresse verso la costruzione del prodotto è un dato ormai incontrovertibile.

L’innovazione nella moda è interessata giusto fino al 2012, anno in cui Nicolas se n’è andato da Balenciaga e nel mondo è arrivato Instagram. Oggi il racconto del futuro è fatto attraverso narrazioni ampie che includono anche, ma non solo, i vestiti e che non comprendono sicuramente né l’astrologia né un mazzo di tarocchi. E questo ultimo paragrafo è, ovviamente, un messaggio in codice.

Copyright © Andrea Batilla, L’alfabeto della moda (Gribaudo) Edizione pubblicata in accordo con Donzelli Fietta Agency srls

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