Non sono mai stato un vero fan del tennis, a dir la verità. Fingo però di esserlo dai tempi del dottorato – da quando cioè ho capito che bisognava masticarne i rudimenti per partecipare a un certo tipo di maschilità intellettuale (quella di quelli che David Foster Wallace mi ha cambiato la vita). Non che David Foster Wallace non mi abbia poi alla fine cambiato la vita in un certo senso eh, ma insomma ora mi vergognerei a sparare una smargiassata da literary bro di tale portata – sebbene stia scrivendo questo paragrafo, che ritarda l’ovvia questione su cui la newsletter andrà a parare, proprio come uno di quei bro lo scriverebbe appunto.

E in ogni caso un senso, pur amatoriale, di cosa Roger Federer abbia significato per una certa categoria di ex-ragazzi (poco atletici ma magari aspiranti tali, inclini all’iperbole, americanofili senza esserci mai davvero stati, come i personaggi dell’ultimo romanzo di Vincenzo Latronico), me lo sono fatto. E dunque l’ultima partita di questo spadaccino della racchetta, di quest’ultimo mito del postmodernismo euforico, me la sono guardata.

E giacché sapevo di star per ricominciare questa rubrica, di avere questo appuntamento con la vostra ospitale casella di posta all’indomani di un’elezione destinata a non sorprendere nessuno, mi sono appassionato non tanto al tennis in sé, quanto al modo in cui il vincitore dei vincitori (stavolta incidentalmente sconfitto, ma sempre vincente) ha messo in scena i crismi di uno dei presunti sentimenti fondanti della presunta essenza maschile: la rivalità.

Mi sono appassionato alle lacrime, sue e di Rafael Nadal, alla loro stretta di mano che è trasfigurata, d’istante in istante, in un tenersi per mano: a come infine si sono proprio tenuti la mano, seduti fianco a fianco, mentre piangevano. L’intervistatore del New York Times gli ha chiesto se un’espressione così dolce e incontrollata di tante emozioni estranee all’aggressività non possa cambiare, agli occhi del pubblico, l’immagine classica degli atleti maschi. Federer non ha davvero risposto.

Collage originale di Didier Falzone per Cose da maschi

Come annunciato, questa stagione di Cose da maschi la dedichiamo alla bromance, parola-valigia che tiene insieme fratellanza e romanticismo, amicizia tra maschi e modi di viverla che trasgrediscono le brusche rigidità anaffettive del paradigma marziale.

Ho scelto, come primo totem, la medaglia, perché volevo ragionare sulla competizione. Sul vincere. Che è una cosa da maschi, certo: un imperativo sulla cui ottemperanza misurare il valore del soggetto virile in agonismo con gli altri. Ma è soprattutto una cosa che anche chi maschio non è finisce generalmente per interpretare attraverso le strettoie di, mi sembra, solo due opzioni cucite addosso agli uomini d’antan: la forza e l’autorità.

L’articolo che ho scritto esplora questi due binari dello stesso tossico treno vittorioso attraverso due monumenti celebrativi medicei in piazza della Signoria a Firenze, su cui ieri ho fatto lezione: l’Ercole e Caco di Bronzino, commissionato dal duca nero Alessandro, e il Perseo di Cellini, voluto dal suo successore. Ma passa poi a Thanos e Hulk sull’astronave di Thor, a Chris Pratt che doma i velociraptor in Jurassic World, alle lacrime di coccodrillo in Kill Bill 2, in Evangelion, nel Giulio Cesare di Shakespeare.

Seguendo, come di consueto, il filo fragile di una domanda complicata (bisogna proprio perdere, per non cedere alle più desuete performance del maschile?) ho rievocato le medaglie d’oro cui sono dedicate le vie e le piazze del quartiere in cui sono cresciuto – lo stesso dove oggi, lo ricorderà chi segue Cose da maschi dall’anno scorso, vive Giorgia Meloni – e un discorso alle matricole del direttore della Scuola Normale.

E, attraverso la medaglia conferita da Obama a Biden cinque anni fa, suggello di una bromance di grande efficacia mediatica, sono arrivato alle medaglie rinascimentali, da ritratto di Botticelli, che funzionano in un altro modo e offrono, credo, un’opzione alternativa, amichevole, di reciproca celebrazione all’antropologia del premiare. Trovate come sempre il pezzo sul giornale online, qui, e sabato lo troverete in edicola.

In edicola e online troverete naturalmente anche un sacco di ragionamenti sul risultato elettorale: su questa vittoria apparente della stessa destra che del vincere faceva una parola d’ordine – è la stessa destra direi, sì, proprio come quella di Thanos in Avengers Endgame è la stessa maschilità performata dall’Ercole di Bronzino a Firenze.

Quel che ho scritto è chiaramente, anche, una reazione a questa realtà politica, e in specie ai suoi risvolti culturali e simbolici. Ma non ne parla direttamente, giacché la rubrica, ormai lo sapete, è anche un tentativo di restare attuali senza davvero occuparsi dell’attualità.

Una cosa però vorrei dirla. La mia nuova collega Serena Bassi (un genio, che spero a un certo punto scriverà per Cose da maschi, e con cui il mese prossimo, a Yale, terrò un panel sulle elezioni) mi ha linkato oggi un intervento in cui Franco Berardi spiega che il partito di Meloni «rifonda il patriarcato partendo dalla fratellizzazione delle donne».

Non dovrebbe sorprendere nessuno che la prima donna a guidare un partito alla vittoria in Italia sia un’esponente dell’estrema destra. È chiaro da anni che una pietra fondante del progetto culturale che sostiene Fratelli d’Italia è la definizione della donna – e dunque, dell’uomo – in termini di essenzialismo, addirittura ontologico («sono una donna, sono una madre» eccetera), nonché la simultanea narrazione mendace per cui l’unica alternativa a un tale dato di fatto biologicamente fondato sarebbe l’assenza d’identità, il vuoto, il numero («genitore 1 genitore 2» eccetera).

Ebbene, la comunità che legge queste lettere – e a volte scrive i contenuti che veicolano – ha una ragion d’essere esattamente perché intende contraddire un simile progetto, una simile narrazione.

Quel che m’interessa, e che spero vi interessi, è moltiplicare le opzioni, uscire dagli aut aut, scegliere tutto – se proprio bisogna scegliere. Far questo nel ricco closet della maschilità serve anche a rivelare come le cose che quel closet contiene (o meglio non riesce a contenere) siano talvolta utili persino a costruire il mito di chi rivendica la presunta altra metà del cielo.

Un closet immenso (l’internet ad alto tasso di maschilità) è quello che esplora l’ospite di questa prima settimana nel nuovo ciclo della rubrica: Andrea Capra, italianista che a volte sembra un germanista e che fino a poche settimane fa sfrecciava in bicicletta nelle più auree californie settentrionali. È ora a Princeton, alla Society of Fellows, a scrivere di cibernetica e intelligenze meccaniche come solo un filologo (o forse un filosofo) può finemente fare.

Andrea, come me, su internet ci è cresciuto, e visto che da ragazzino competeva da gamer a livello professionale ho a lungo desiderato un suo contributo sul joystick (questa tattile cosa da maschi, un po’ onanista, originariamente assai fallica) oppure sui paraphernalia del giocatore al computer – la sedia imbottita, la tastiera luminescente, le gonfie cuffie col microfono tipo Matrix.

Troppo raffinato per una roba tanto banalmente tematica, e troppo poco sedotto – a differenza di me – dall’anima degli oggetti in sé, Andrea ha invece deciso di scrivere una specie di etnografia degli spazi più omosociali della rete. Ci porta dunque soprattutto nei meandri di 4chan e sui server di World of Warcraft, a incontrare femboys e gif pornografiche, ragazzi che performano elfe muliebri e ragazze che trascendono i confini del genere. È un pezzo bellissimo, pieno di link, e mi auguro che questa settimana troviate il tempo di leggerlo qui su Domani in digitale.

Mi auguro anche che apprezziate il ritorno dell’ormai leggendario Didier Falzone, il cui superbo collage sulle medaglie combina la grazia del meta-ritratto botticelliano di un ignoto ragazzo (che mostra appunto, agli Uffizi, una medaglia di Cosimo il Vecchio, resa con realismo impressionante impastando del gesso tridimensionale alla pittura) con le enigmatiche teste inorganiche dell’immaginario dechirichiano – il capo-capitello mi fa pensare in particolare al fratello di de Chirico, Alberto Savinio, e ai suoi ritratti in cui le teste sono sostituite da riccioli, impasti materici, brani d’archeologia.

L’alleanza verbo-visiva con Didier, con mio grande orgoglio, continuerà nei numeri seguenti. Il prossimo, che arriverà forse quando già sapremo l’esito delle consultazioni post-elettorali, girerà significativamente intorno al letto, al condividere il letto, al trovare spazio in popolatissimi letti (da maschi).

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