L’appuntamento era per le 10:30. Sul pavé di fronte alla Questura, solcato dai binari dismessi del tram, il traffico di auto blu, invitati e curiosi era cominciato ben prima. Ai “ghisa”, i vigili urbani con le loro divise di rappresentanza color ferro battuto, toccava far sgomberare le auto parcheggiate in via dei Giardini e via De Marchi, per far posto a quelle delle autorità.

Agenti e guardie di pubblica sicurezza sostavano all’ingresso per controllare gli inviti: chi non lo mostrava non sarebbe entrato. Al bar dell’Annunciata, il tradizionale ritrovo di poliziotti e giornalisti sul marciapiede di fronte al grande portone, i caffè e i cappuccini arrivavano sul bancone a un ritmo doppio rispetto al solito.

L’uomo col giaccone color crema, il viso scavato ornato da un lungo pizzetto, si muoveva senza far molto per non farsi notare. Dentro l’Annunciata, tra le 9:30 e le 9:40, si era fatto versare un cognac dal barista Francesco Galoppini. Uscito dopo l’insolita consumazione, aveva formato un piccolo capannello con altre due persone, sotto gli occhi dello chauffeur Giuseppe Iannaci e del poliziotto della Scientifica Gioacchino Gemelli, uno abituato a fotografare le persone con un solo sguardo e a tradurne i connotati in gergo tecnico sui rapporti.

Quel volto non passava inosservato e nemmeno la figura di uno dei suoi due compagni di chiacchiera, un giovane dall’aspetto hippy con i capelli biondo-rossicci, lunghi “alla nazarena”, il viso “poligonale”, i baffoni a manubrio, l’eskimo verde col cappuccio, i pantaloni di velluto marrone: così Gemelli lo avrebbe descritto in seguito. I tre erano rimasti insieme per lunghi minuti, scambiando qualche parola. Poi l’uomo col giaccone era rientrato al bar e il cameriere Roberto Bonetti gli aveva versato una sobria aranciata.

La cerimonia

Nel cortile della Questura, il discorso di Mariano Rumor era durato pochi minuti e non aveva lasciato tracce significative. Difficilmente le parole del leader vicentino dei dorotei democristiani restavano scolpite nel marmo della Storia. La tromba del silenzio era risuonata mentre l’uomo col giaccone chiaro si presentava al portone.

«L’invito», gli aveva intimato il maresciallo Ferdinando Oscuri, un omone che era già leggenda alla Squadra mobile per le sue mani enormi e i modi spicci. Aveva già catturato rapinatori rampanti come Renato Vallanzasca, o incalliti come le “tute blu” di via Osoppo, gli autori del colpo che aveva fatto tifare per i cattivi perfino Indro Montanelli dalle colonne del Corriere della Sera, nel lontano 1958. Respingere un imbucato era una pura formalità.

Per le 10:50 il picchetto d’onore mise già termine alla cerimonia. E per la seconda volta le manone di Oscuri bloccarono sulla soglia quel signore col pizzetto e le mani nelle tasche del giaccone. «Circolare».

Ricevuta l’ennesima stretta di mano dal ministro, Gemma Capra gettò un’ultima occhiata al busto. L’espressione del marito, ritratto in dolcevita e giacca, era dura, quasi cupa. Rocchi aveva dovuto lavorare sulle poche foto disponibili, quelle scattate durante il processo per diffamazione all’allora direttore di Lotta Continua, Pio Baldelli.

Erano i giorni in cui decine di extraparlamentari rossi scandivano verso il commissario l’accusa “as-sas-si-no!” in quell’aula di tribunale. Anche Enzo Tortora, che sulle colonne della Nazione aveva difeso le ragioni di Calabresi fin dai giorni della morte di Pinelli, andò a dare un bacio alla vedova.

Camilla Cederna osservava la scena qualche metro più in là, col suo quaderno pieno di appunti da riversare sul numero seguente dell’Espresso. In un anno, la firma più acuta e impegnata dei salotti milanesi non era retrocessa di un millimetro dalla sua convinzione: l’anarchico non si era certo suicidato, e le responsabilità del funzionario dell’Ufficio Politico prima o poi sarebbero venute fuori.

Le cineprese e i flash a bulbo seguirono Rumor dal cortile fino all’auto blu che attendeva lui e Zanda Loy, ferma sul pavé, mentre un cordone di agenti conteneva la folla sul marciapiede opposto. Il prefetto Libero Mazza e il questore Ferruccio Allitto Bonanno seguirono il ministro con lo sguardo finché la portiera non fu chiusa e l’autista diede gas. Gli invitati sciamarono via con ordine. Gemma Capra guadagnò l’angolo tra via Fatebenefratelli e via dei Giardini, insieme ai familiari.

Il sindaco Aldo Aniasi percorse il marciapiede in direzione opposta, dove l’autista era pronto a riportarlo a palazzo Marino. Dalle finestre del piano ammezzato della Questura, nella saletta dove ogni giorno si dettavano ai dimafonisti i resoconti degli arresti e le ultimissime per le “ribattute” notturne dei quotidiani, i cronisti di nera osservavano gli ultimi scampoli di scena. Tutto si era già concluso.

Tutto, invece, stava per cominciare.

La bomba

L’archivista Leone Di Bratto, appuntato di Ps in servizio d’ordine fin dalle 8, notò il gesto con la coda dell’occhio. Dalla tasca del giaccone chiaro, un paio di metri alla sua sinistra, erano spuntati una mano e un oggetto. Il gesto del braccio fu ampio, quello di Di Bratto secco. Arrivò a sfiorarlo.

Il carabiniere Giancarlo Aloisi fu il primo ad afferrare il lanciatore, ma intanto quella cosa scura a forma di uovo era volata verso il portone della Questura, colpendone lo spigolo e rotolando lungo il marciapiede. Non ci fu tempo per notare le linee verticali e orizzontali che la intarsiavano a intervalli regolari. Tra lo strappo della coppiglia e il botto trascorsero appena cinque secondi.

Una bomba a mano.

Istantanee della strage

ANSA

L’esplosione. La fiammata. Pochi istanti di silenzio, una nuvola di fumo. Poi ecco le grida di dolore. Ecco i cameraman e i fotografi fare il loro lavoro: documentare in diretta la morte e lo sgomento dei feriti.

L’anziano, ritto sulle ginocchia, con la bocca spalancata e le macchie scure a imbrattare la fronte, il mento, la camicia, i pochi capelli sulle tempie. Le braccia gli penzolavano lungo i fianchi. Comparve in pochi scatti, lo portarono via subito.

Restò invece seduto sul marciapiede, a pochi centimetri dal muro esterno della Questura, il giovane alle sue spalle in giacca chiara e cravatta. C’era più sorpresa che sofferenza sul suo viso, mentre tentava invano a rialzarsi, o almeno è quello che rimase impresso sulle pellicole. Lo sorreggevano per le spalle, durante quei suoi tentativi, quasi che vincere il male fisico fosse una missione. Il suo volto era già comparso sui giornali del 13 aprile 1973 mentre osservava da vicino il collega Antonio Marino, straziato da una bomba a mano lanciata dai neofascisti Vittorio Loi e Maurizio Murelli che manifestavano con i loro camerati nonostante il divieto del questore.

Due metri più in là, la maschera stravolta di un “ghisa” era il perfetto pendant ai brandelli dei suoi pantaloni, alle sue gambe martoriate e incapaci di tirarlo su.

Immobile, come addormentata su un fianco, stava una ragazza col maglione a quadretti, i pantaloni a zampa d’elefante appena pronunciata, le scarpe col tacco basso. Il suo caschetto di capelli corto e biondo donava ulteriore grazia alla sua figura.

Altre décolleté da signora, scivolate dai piedi della corpulenta proprietaria, penzolavano ai bordi del marciapiede. I cronisti di nera lo sapevano bene: ogni volta che una scarpa restata terra, lì c’è la vittima. Le aveva perse anche la signora immobile alla sua destra. Un paio, scuro e con tacchi spessi, era invece ancora calzato da una giovane con la bocca spalancata, gli occhi voltati all’indietro alla ricerca di qualcuno che le curasse le ferite e le spiegasse il perché.

Sembravano rendersene conto i soccorritori, civili e in divisa, che provavano a dar conforto in quegli istanti straziati, e quelli che allargavano le braccia di fronte all’orrore.

L’attentatore

Sul lato opposto della strada altri flash continuavano a crepitare. Riprendevano il mucchio umano che si era formato sopra l’attentatore. La guardia Pietro Carlucci lo aveva visto girarsi di spalle e provare a incamminarsi con fare indifferente. Due passi e il carabiniere Aloisi lo aveva afferrato, la guardia Vito Di Fonzo gli era saltato addosso, il tenente colonnello dei carabinieri Guido Petrini era piombato a dare man forte.

E dietro di lui cittadini inferociti, passanti che facevano roteare gli ombrelli, testimoni che menavano e scalciavano, colpendo soprattutto gli uomini in divisa, che facevano scudo. «A morte!». A stento, guidati dall’erculeo Oscuri, carabinieri e poliziotti erano riusciti a trascinare l’uomo col pizzetto e il giaccone chiaro verso il portone. «È per Pinelli! Viva Pinelli!».

Le sue urla sapevano di sfida. (…) Evitare il linciaggio fu un’impresa. I rullini con le crude immagini stavano già volando verso le camere oscure, pronte ad andare in stampa sulle prime pagine e sullo sfoglio interno dei quotidiani del pomeriggio e dell’indomani.

Appena dentro il cortile, e prima di mettere piede nell’ufficio di Notturna, l’appuntato Di Bratto tolse il portafoglio dalle tasche dell’attentatore. Sul passaporto n. 4338024/P c’era il nome di Massimo Magri, nato a Bergamo il 30 luglio 1942. Il bombarolo dimostrava almeno dieci anni in più.


Il testo è un estratto di Il bombarolo. La strage dimenticata di via Fatebenefratelli (Feltrinelli 2024, pp. 384, euro 20,90) di Paolo Morando e Massimo Pisa

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